Il sogno di John Lennon

Abbiamo tutti due gambe, due braccia e una testa. Ci chiamiamo umani e, almeno nelle moderne democrazie, sosteniamo di essere tutti uguali. Uguali al di là del colore della pelle, della lingua che parliamo, del paese in cui siamo cresciuti, del livello di istruzione, delle opinioni politiche o delle credenze religiose. Siamo corpi, un assemblaggio non sempre del tutto riuscito di materia, carne, ossa, fluidi, destinata ad alterarsi con gli anni fino a decomporsi con la morte. Ed è questo destino comune e inesorabile a renderci ancora più uguali.

Eppure c’è chi spende l’intera esistenza a creare diversità. E la cosa peggiore è che in genere ci riesce. La storia del nostro pianeta ci racconta che le persone nascono e crescono dentro gabbie chiamate paesi, città e nazioni, che hanno generato lingue, religioni, usi e costumi utilizzati dai gruppi al potere per sostenere ideologie e sviluppare un senso d’appartenenza che non ha altre ragioni per esistere che difendere il territorio e le sue ricchezze dagli attacchi di altri gruppi con le stesse esigenze. L’uguaglianza umana è andata persa appena i primi uomini sulla terra hanno cominciato a vivere in comunità. Già in famiglia, direi. C’è sempre chi è dentro e chi è fuori. Chi vuole uscire e chi vuole entrare.

Morale: non basta avere una testa, due gambe, due braccia, naso, occhi, bocca e svariati organi interni per dirci uguali. Perché a renderci diversi è quell’ammasso di materia grigia che portiamo a spasso nella scatola cranica e che usiamo, purtroppo, non in ugual misura.

Se chi fomenta nazionalismi, separatismi, terrorismi e molti altri temibili “ismi” viene considerato un eroe e spesso eletto in posti di potere, se si permette alla gente di considerare l’espressione “cittadino del mondo” una semplice etichetta data a viaggiatori senza patria, invece di una condizione auspicabile per l’intera umanità, se ai bambini si insegna già in famiglia che la loro nazione, lingua o religione sono superiori a quelle del vicino, allora continueremo ad avere guerre fratricide e povertà.

I viaggi low cost, internet e i social network hanno ridotto le distanze e in molti casi aiutato ad aprire le porte virtuali delle gabbie in cui mezza umanità è stata confinata, ma mentre da un lato si tenta di unire, dall’altro c’è sempre chi rema contro. Mentre l’Europa vive una fase delicata in cui si rischia di distruggere ciò per cui si è lavorato per decenni, c’è chi gode pensando al ritorno di una moneta locale e di un’economia che non guardi al di là del proprio orticello.

Io che risiedo a Barcellona ho ogni giorno un esempio sotto gli occhi che non fa che accrescere la mia convinzione sulla capacità autolesionista dell’essere umano. In Catalogna, comunità autonoma spagnola con poco più di sette milioni di abitanti, la lingua catalana sta diventando ogni giorno di più la scusa ufficiale per attaccare lo stato spagnolo centralista e rivendicare istanze separatiste. Le ragioni economiche, da entrambe le parti sono il vero motore di queste battaglie, ma la questione linguistica tiene banco sulle pagine dei giornali.

Così accade che quello che in qualsiasi regione italiana sarebbe considerato un dialetto, debba essere studiato a scuola come lingua principale sottraendo ore allo spagnolo parlato nel mondo “solo” da cinquecento milioni di persone, seconda lingua dopo il cinese. I paradossi legati al catalano sono all’ordine del giorno. Tutti i nativi sono bilingue, ma ci sono professori che si rifiutano di dare lezione in spagnolo anche a studenti stranieri che assistono impotenti senza capire una parola, politici che preferiscono far spendere soldi alla collettività per pagare un interprete che traduca i loro discorsi pubblici quando potrebbero tenerli direttamente in spagnolo; e ancora personale qualificato che non può essere assunto in ruoli pubblici perché parla “soltanto” lo spagnolo e non il catalano. Gli esempi sono innumerevoli e la dicono lunga sulle difficoltà degli esseri umani di lavorare per un futuro comune in cui l’uguaglianza e l’unione siano davvero considerati valori. Fino a quando il Consigliere per la cultura della Generalitat de Catalunya continuerà a scrivere in prima pagina su La Vanguardia “Siamo una nazione con lingua propria. Abbiamo diritto ad avere uno stato proprio con sovranità linguistica” non ci si può stupire se parte dei catalani tifava Italia e non Spagna nella finale degli ultimi europei.

Cantava John Lennon:

 Imagine there’s no countries, it isn’t hard to do
.

Nothing to kill or die for

and no religion too.

Imagine all the people
 living life in peace…

 (Immagina che non ci siano nazioni
, non è difficile da fare
. Niente per cui uccidere o morire,
 nessuna religione.
 Immagina che tutti
 vivano la loro vita in pace…)

 Un sogno così banale da far male per l’impossibilità di vederlo realizzato.

 

 

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