Paolo Cognetti: “scrivere è continuare ad aprire porte”.
Di Paolo Cognetti la prima cosa che pensi mentre gli stringi la mano è che l’autore di Sofia si veste sempre di nero (Minimum fax) non poteva che essere così. Così, come? Riservato, oscuro e sfuggente come la protagonista del suo romanzo, verrebbe da dire, anche se in realtà Cognetti è un ottimo conversatore e, a chi lo intervista, si concede con generosità.
Eppure, lo sguardo sfuggente, la folta barba e il sorriso che non compare quasi mai, parlano di un ragazzo introverso. Non deve essere un caso se questo giovane scrittore milanese, classe 1978, adora vivere in montagna, possibilmente in solitudine.
Il mio incontro con Cognetti, il cui romanzo è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2013, avviene al Salone del Libro di Torino, nell’affollato stand del suo editore. Dopo i convenevoli, mentre passeggiamo verso una zona più tranquilla della fiera per realizzare l’intervista, chiacchieriamo della “sua” Sofia, quasi come se fosse una persona reale. Gli dico che ho amato il libro, ma che la protagonista non l’ho digerita: troppo scontrosa e antipatica (leggi la recensione). Lo scrittore mi consola dicendo che non sono l’unica a pensarla così. E da qui prende il via la nostra conversazione.
Da dove viene Sofia? Ti sei ispirato a qualcuno in particolare o è un personaggio completamente inventato?
Dentro a Sofia ci sono tante persone, ci sono dentro io stesso. È arrivata da “Pelle e ossa”, una storia che appartiene alla mia precedente raccolta di racconti, ambientata in una clinica per ragazzine anoressiche. La protagonista, Margot, mi era rimasta molto in mente, uno di quei personaggi che continuava a emozionarmi e a ossessionarmi. All’inizio aveva sedici anni, era scheletrica e incazzatissima. Io ho sempre avuto un debole per le contestatrici, le anticonformiste, le rompipalle, quelle che litigavano sempre con tutti. Mi innamoravo costantemente di questo tipo di ragazza, perciò avevo in mente qualche modello reale da cui ho attinto.
Il mondo adolescente ti affascina molto. Perché?
Sì, mi affascina per come le persone sono combattute a quell’età; io ricordo tanta sofferenza ma anche esperienze davvero intense. Un materiale che ho sempre sentito narrativamente molto fecondo.
Tu nel libro dai quasi a tutti la possibilità di evolversi e maturare. A Sofia e a sua madre, invece, questa opportunità viene negata. Entrambe rimangono prigioniere del loro personaggio. Perché?
Perché Sofia e Rossana sono un po’ la stessa persona. In realtà Rossana è un destino possibile per Sofia adulta e questo Sofia lo sa, per questo si rivolta così ferocemente contro sua madre. Avevo bisogno di qualcuno che rimanesse fermo, un po’ come il sole o un buco nero, trattandosi di una persona così oscura, intorno al quale ruota tutto il resto. Forse Sofia è anche la persona meno reale, come lo può essere un primo amore, una ragazza idealizzata, quasi un idolo.
Per un uomo non è facile immedesimarsi così bene nei sentimenti di una donna. A cosa si deve tanta sensibilità?
Ho tante scrittrici preferite come Alice Munro, Flannery O’Connor, Grace Paley; ho molte più amiche che amici e riesco a parlare meglio con le donne. Con gli uomini probabilmente condivido altre cose che non sono parole. Credo che esistano molteplici sensibilità e, se l’attenzione verso il dettaglio, le relazioni e verso una dimensione più interiore si chiama sensibilità femminile, allora sì, ce l’ho e la sento ben presente.
All’inizio del romanzo c’è una frase che da sola, credo, valga il libro. Tu fai dire all’infermiera che veglia su Sofia appena nata: “Lo sai cos’è la nascita? È una nave che parte per la guerra”. Lo pensi veramente?
Sì, lo penso. È una delle frasi che ho scritto tra le ultime. In origine diceva: “Lo sai cos’è la nascita? È l’inizio di tutto il resto”. Una frase molto più debole, che non mi convinceva. Poi, l’estate scorsa dopo varie riscritture, in un momento difficile per me in cui mi sentivo davvero come una nave in partenza per la guerra, è arrivata la versione definitiva.
Tu sei molto giovane, però nel libro racconti in modo molto efficace il clima e le tensioni degli anni settanta. Come hai fatto a calarti così bene nell’ambiente della fabbrica e dei conflitti di allora?
Quella parte nasce da un grosso mistero che era per me la vita di mio padre fuori da casa, una vita completamente oscura ai miei occhi di bambino. Lui era un uomo come tanti, che usciva la mattina per andare al lavoro e poi tornava la sera pieno di rabbia e di preoccupazioni. Io ho capito con il tempo che quella tensione non era dovuta solo al lavoro, ma anche alla violenza che c’era in quegli anni in cui andare a lavorare era entrare in un mondo pieno di minacce. Inoltre, a vent’anni, quando ho fatto la scuola di cinema, ho avuto un’insegnante che per me è stata una maestra. Mi ha aiutato a capire da dove vengo, mi ha aperto gli occhi sugli anni settanta della città in cui sono nato e di cui non sapevo nulla. A lei nel romanzo ho assegnato il ruolo della zia di Sofia.
Quanto ci hai messo a scrivere il romanzo?
Cinque anni.
Che cos’è per te scrivere?
A me piace quello che diceva Grace Paley a proposito dell’esplorazione: non scrivere perché si ha qualcosa da dire, una storia da raccontare, ma scrivere perché ci si sta interrogando. Anche per questo ci metto così tanto a terminare un romanzo. C’è un punto di partenza spesso molto piccolo, una stanza, un personaggio, un dettaglio. Scrivere è continuare ad aprire porte e a fare luce su zone d’ombra, che poi sono le mie.
Quando scrivi sei disciplinato e metodico o scrivi solo dove e quando ne hai voglia?
Ho sperimentato forme diverse. Per tre anni ho scritto dalle sette alle nove di mattina, perché avevo un lavoro diurno. È stato fruttuoso, ma faticoso. Una disciplina così rigorosa finisce per farti aprire gli occhi nel letto e pensare: “Oddio no, adesso devo scrivere…”. Allora ho provato a scrivere solo quando mi andava e ovviamente per anni ho scritto pochissimo. Poi, finalmente, ho capito quali sono le condizioni che mi fanno stare bene e mi mettono nella giusta disposizione per scrivere: andare in montagna e passare del tempo in solitudine. Per me è importante anche fare una vita sana, sentirmi fisicamente in forma. La città è il torpore del corpo, la montagna ti fa sentire in salute.
Trova un pregio e un difetto a Paolo Cognetti scrittore.
Il difetto è che sento di essere ancora molto artefatto nella scrittura, vorrei raggiungere una naturalezza che avverto nei miei scrittori preferiti, che è quella di chi ha trovato la “propria voce”, cioè una lingua che, dopo averci lavorato tanto, ti viene naturale. Un po’ come un ginnasta che, dopo aver provato mille volte un esercizio complicato, lo esegue in modo fluido e armonioso. Quando mi rileggo, sento ancora molto il cigolio degli ingranaggi
Il pregio? Credo di riuscire a trasmettere l’empatia che provo per i miei personaggi. Io a tutti loro voglio davvero molto bene.
C’è stata una critica che ti ha infastidito?
Alcuni dicono che Sofia è antipatica e questo lo capisco, è vero. Mi infastidisce, invece, quando qualcuno dice che nel libro ci sono tanti cliché: la zia terrorista, la fabbrica etc.. Sì, forse lo sono, sono temi trattati tante volte, ma sono la nostra storia e io cerco di guardarli con occhi nuovi.
E il complimento più bello che ti hanno fatto?
Tutte le belle parole dette dalle persone che si sono innamorate di Sofia. Ci sono tanti lettori che non se la dimenticano e vorrebbero sapere come è andata la sua vita dopo. C’è chi mi ha detto che ovunque si trovi adesso, spera che Sofia stia bene.
Hai già in mente un’idea per il prossimo libro?
Sì, penso che parlerà di maschi.
Che consiglio dai a un giovane scrittore che vuole esordire?
Incontro spesso persone e che vogliono pubblicare, ma del mondo editoriale non sanno quasi nulla. Io consiglio loro di scoprire i piccoli editori, capire cosa fanno, andarli a conoscere personalmente, presentarsi nei loro stand alle fiere di settore e proporre il proprio manoscritto. Inviare il romanzo non basta.
Tu come hai fatto?
Io, ormai dieci anni fa, sono andato a una festa di Minimum fax e ho conosciuto i due editori (un po’ ubriachi sottolinea ridendo ) e ho cominciato una specie di “corteggiamento”. I piccoli editori leggono davvero le cose che vengono loro proposte. Poi ci sono le riviste letterarie e le comunità online. Insomma, bisogna muoversi, non chiudersi in casa a scrivere e basta.
bellissima intervista.bravissima giornalista.
Sono felice che ti sia piaciuta. Grazie mille per avermelo fatto sapere e per i complimenti!