Il vizio di giudicare
Ho insegnato ai miei figli che di fronte a qualsiasi cosa non gradita è più saggio e rispettoso dire “non mi piace” piuttosto di un drastico e inappellabile “è brutto”. Sottigliezze linguistiche? Niente affatto.
La tendenza a giudicare tutto e tutti fa sì che ci si senta autorizzati a decretare la bellezza e la bruttezza di qualsiasi cosa: una canzone, un libro, una quadro, una persona. Si sputano sentenze pesanti come pietre, come se di fronte ci fosse un materasso ad attutire il colpo. Invece, in genere, dall’altra parte ci sono persone che dolorosamente incassano.
Questa non è un’apologia della gentilezza e delle buone maniere, che per carità non fanno mai male, ma è una riflessione, amara, su quello che si legge e si ascolta in giro: social media, Tv, discorsi tra la gente.
Con noncuranza si afferma che i libri di tale scrittore “fanno schifo”, che il look di quella persona “è orribile”, che la voce di quel cantante è “patetica”.
Siamo tuttologi esperti, abbiamo un’offesa in tasca per ogni esigenza e se l’oggetto dei nostri giudizi si lamenta e soffre deve avere un problema di eccessiva sensibilità, forse la mamma lo ha iperprotetto da bambino e ora non è in grado di sostenere le critiche. Sarà…
A me, spesso, sembra che siano state le mamme a scordarsi di educare i figli, i quali hanno imparato ad andare per il mondo dicendo tutto quello che passa loro per la testa. Viva la sincerità, certo, ma usata con buon senso e non per annichilire il prossimo. Se le critiche sono costruttive (lo so è un’espressione abusata ma rende bene il concetto) e manifestate con educazione, non possono che essere salutari.
Liquidare il discorso con un “è orribile”, invece, non contribuisce granché al miglioramento. Puntare il dito un tempo era mancanza di rispetto. Oggi è normale prendere il prossimo a sberle (morali) senza un perché.
Ci sono situazioni in cui il giudizio fa parte del gioco, è inevitabile e anche sano. I talent show, per esempio, implicano per definizione una selezione e nessuno mette in discussione il ruolo della giuria.
Un editore o un concorso letterario che riceve migliaia di manoscritti dovrà necessariamente valutarli e nessuno potrà rimproverargli di aver giudicato un libro non adeguato alla pubblicazione. È il suo mestiere. Usa criteri di gusto personale ma anche economici. Certo, la storia insegna che nessuno è perfetto e non sono pochi i casi di grandi successi editoriali rifiutati decine di volte prima di essere mandati in libreria. Ciò che era brutto per uno è diventato bello per molti altri.
Proprio a causa di questa relatività sarebbe piacevole ascoltare qualcuno che semplicemente dica: “Non mi piace”, senza seppellire di aggettivi offensivi l’oggetto del suo disprezzo.
A proposito di questo tema, qualche settimana fa, ho avuto una discussione in Twitter che mi deve essere costata vari defollow, di cui tuttavia, non posso che rallegrarmi.
Qualcuno sosteneva il diritto di dichiarare “brutto” un libro, etichettandolo così in modo definitivo. È naturale che nei nostri pensieri e nelle conversazioni private passi questo vocabolo, ma il rispetto per il prossimo e per il suo lavoro si esprime innanzitutto attraverso il linguaggio che si usa in pubblico. L’estremismo linguistico è sempre pericoloso perché tende a escludere, a separare i buoni dai cattivi, a creare cerchie ristrette e inaccessibili. Avevo posto un esempio volutamente drastico e urticante, esagerato di sicuro, ma che credo illustri in modo chiaro il rischio di ghettizzazione implicito nelle parole: anche i neri, gli ebrei o gli omosessuali erano stati giudicati “brutti”, “sbagliati” “inadeguati” e via con altri epiteti assurdi e irripetibili. E sappiamo come è finita.
Questa affermazione ha scatenato il finimondo. Come si fa a comparare un libro o una canzone con una persona? In teoria è una sciocchezza è vero, ma nella pratica ogni giorno cose e persone vengono etichettate senza possibilità d’appello. I benpensanti che hanno un giudizio da sfornare per ogni occasione, in genere sono i primi a mettere sul rogo (virtuale mi auguro) tutto ciò che non incontra il loro gusto. Il loro, appunto.
Ma chi sono loro per vestire i panni dei giurati? In genere dei signori nessuno, proprio come noi comuni mortali che più modestamente ci accontentiamo di dire “non mi piace”. Noi comuni mortali che quando qualcosa non ci convince ci limitiamo a non mangiarla se è un cibo, a non leggerla né consigliarla se si tratta di un libro, a non ascoltarla se è una canzone, a non frequentarla se è una persona. Un metodo semplice, che rispetta il diritto di ciascuno alle proprie opinioni senza ledere la dignità altrui. Regole di civile convivenza che, se per qualcuno hanno ancora valore, per molti, per troppi, sanno di rancido.
Eppure, lo sapevano anche gli antichi romani che de gustibus non est disputandum.
(Credits: immagine giudice – immagine libro infuocato – logo X Factor)
Sono assolutamente d’accordo con te, Patrizia.
Sarebbe anche “carino” provare a cimentarsi in critiche costruttive…
Vabbè, prima o poi ci arriviamo a diffondere nuove abitudini! 😉
Grazie Paola, mi fa piacere saperti d’accordo, anche se ho la sensazione di appartenere a una minoranza in via d’estinzione. A diffondere nuove (vecchie), buone, abitudini non si può rinunciare, ma è una missione molto difficile. Se questo post fosse pieno di insulti avrebbe di certo il triplo dei RT in Twitter. La gente spesso non promuove i valori, anche quando li ritiene corretti, proprio per timore al giudizio altrui. Io scrivo cose che sanno di antico, non è “cool” farle circolare, lo so, ma non importa. Almeno queste idee mi danno l’opportunità di scoprire persone come te!
Eh sì…
Poi certo, se oltre al fatto che è difficile far girare queste opinioni, aggiungi anche qualche sbadata che era convinta di averlo RT e invece non se lo ritrova nella sua timeline… (una a caso, eh!) 😉
Ahahah… ma io non mi riferivo certo a te! Comunque, grazie mille. 🙂
Come deducibile dal mio commento su Twitter mi trovo in sintonia con le tue parole e per quanto poco sia ho condiviso in più parti lo scritto. Chiedersi poi se si appartenga a una minoranza in via d’estinzione è relativo: sapremmo (e vorremmo) comportarci diversamente?
Buon lavoro Paola.