Romana Petri: “mettersi nella testa di un maschio è divertente”
È una delle voci letterarie femminili più apprezzate dei nostri giorni, ha al suo attivo numerosi romanzi di successo e una serie di importanti riconoscimenti come il premio Mondello e il Grinzane Cavour e quest’anno è nella rosa dei 12 finalisti del prestigioso Premio Strega con il suo Figli dello stesso padre, pubblicato da Longanesi. Protagonista di cotanta biografia è Romana Petri, scrittrice ma anche traduttrice, critica letteraria, insegnante di francese, opinionista per vari media e soprattutto donna di cultura con la C maiuscola. Per accorgersene, e restare affascinati dai suoi modi eleganti, basta una chiacchierata come quella che ho avuto l’opportunità di scambiare con lei la scorsa settimana nel suo appartamento, in un quartiere centrale della capitale. Romana mi accoglie con gran simpatia e l’ora abbondante di conversazione vola leggera tra citazioni dei classici, considerazioni sullo stato della letteratura e dell’editoria nel nostro Paese e, naturalmente, sul suo ultimo romanzo che ho letto e recensito con grande piacere. La sua disponibilità fa sì che in nessun momento mi senta un’intrusa nella sua casa e al termine dell’intervista, Diogo, il secondo marito, portoghese proprio come uno dei personaggi più equilibrati e positivi di Figli dello stesso padre (un dicharato omaggio da parte della scrittrice), si presta a scattarci qualche foto insieme.
Romana Petri, che ha un figlio diciottenne e divide la sua vita tra Roma e Lisbona, è una donna abituata ad analizzare quello che accade intorno a lei e a utilizzare questo materiale sociale come fonte per i suoi libri. Ascoltarla mentre parla dei suoi personaggi è quasi come averli davanti e viene naturale iniziare l’intervista domandandole di loro.
Romana, che cosa ha ispirato la storia di fratelli divisi che racconti in Figli dello stesso padre?
Questa è una storia vecchia. Oggi le famiglie allargate sono un argomento comune e normale. Io, invece, sono voluta andare ai primordi della famiglia allargata, quando ancora non era “di moda”. Tant’è che i protagonisti sono nati uno nel 1960 e l’altro nel 1969 e la mamma di Emilio resta incinta nel 1968 una data non casuale.
Sottolineo il fatto che quando a Germano si sfascia la famiglia lui è l’unico in classe a vivere questa situazione e quindi viene preso in giro dai compagni, la maestra se lo coccola, insomma è un diverso. Un po’ il contrario di quello che accade oggi. Nei romanzi si è parlato tantissimo delle separazioni e delle coppie in crisi, anch’io l’ho fatto nel mio romanzo Ti spiego. Stavolta, però, sono voluta andare a scavare nel dolore che queste cose generano nei figli, ma non solo quando sono bambini, anche in quello che si portano dietro per 40 anni.
Tra i due fratelli ce n’è uno che preferisci?
Dei due fratelli, Germano è quello che al lettore più semplice potrebbe essere più antipatico. Io, tuttavia, sono sempre per i perdenti, per la fragilità e Germano è sicuramente il più fragile. Emilio, per quanto dica che non gli è servita a molto, ha fatto otto anni di terapia e qualche puntello ce l’ha: ha una donna che ama, una famiglia, dei figli, si è costruito qualcosa. Germano, invece, si è costruito solo il suo dolore e su quello si è avvolto, di quello si è nutrito e ammalato dentro. Ognuno dei due ha reagito per essere diverso da quella figura paterna ingombrante, egocentrica, infantile, al limite tra il genio e il mentecatto che è Giovanni. Però la reazione di Emilio è stata costruttiva, quella di Germano è stata nichilista. È uno che per fare del male agli altri fa male a sé e quindi è molto indifeso.
Giovanni invece è il prototipo dell’uomo Peter Pan, incapace di assumersi responsabilità. È un tipo d’uomo che esiste da sempre secondo te? E perché riesce a trovare donne disposte a stare con lui?
Più di una lettrice mi ha detto che Giovanni è il suo personaggio preferito e altre mi dicono che quello è il tipo di uomo che quando lo incontri “sei finita”. Io sono stupita, secondo me è il tipo d’uomo da cui devi fuggire, è l’uomo della notte. Forse questa attrazione dipende dal fatto che le donne non si vogliono bene. Giovanni è l’uomo italiano degli ultimi 30 anni e non è difficile capire perché. Siamo un paese con una condizione femminile spaventosa.
Il messaggio generale del libro, tuttavia, è positivo. Credi davvero che la mente umana sia in grado di “ripulirsi” nonostante anni di rancori?
Io leggo molti libri di psichiatria e ho imparato che il cervello è plastico e si modella in funzione delle esperienze che viviamo, che si intersecano una con l’altra, plasmandoci. Per questo credo che anche situazioni incancrenite e morbose come quella di questi due fratelli possano risolversi attraverso un momento catartico, che avviene però con il corpo. Perché siamo fatti anche di “trippe”, anche lì c’è il nostro sentimento, non solo nel pensiero. Dopo tanta vita trascorsa a farsi del male c’è il richiamo del sangue. Figli dello stesso padre è un romanzo viscerale, il vero protagonista sono i legami del sangue che secondo me è impossibile che a un certo punto non vengano fuori. Io resto sempre stupita quando nelle famiglie ci sono delle rotture eterne. Un’esperienza che ho vissuto sulla mia pelle perché mio padre è stato 17 anni senza vedere sua madre e suo fratello. Decisamente troppi.
Le donne in questo libro, che sembra scritto da un uomo, hanno un ruolo marginale. Perché questa scelta?
Io leggo molta filosofia greca e le donne in questo libro sono proprio il coro della tragedia greca, quello che secondo Nietzche era lo spettatore ideale. Sono quelle che si immedesimano di più nella storia e la commentano, la chiosano e da buone cassandre sono anche poco ascoltate dagli uomini. Io ho voluto fare un elogio del maschio, perché a me sono molto simpatici gli uomini e non trovo nemmeno che siano nemmeno dei semplicioni come si dice. Se l’uomo fosse semplice Platone non ci sarebbe mai stato. Gli uomini possono essere complessissimi dentro ma sono più diretti, meno sotterranei e calcolatori. Scrivere usando la testa del maschio è molto divertente. Lo scrittore deve essere un po’ come un attore, deve sapersi mettere nei panni degli altri, essere camaleontico. Nella pelle degli uomini io non mi ci trovo male.
(La conversazione a questo punto converge sui comuni trascorsi da maschiaccio e la scrittrice mi racconta di aver praticato anche la boxe…).
C’è una parte, una pagina o una frase del libro che ti piace particolarmente?
Mi piace quando il fratello romano prende in giro il milanese, che ci casca sempre. Germano è contro la lentezza, Emilio, invece, a tutto arriva con calma. Questa diversità nei tempi di esecuzione mi diverte molto. Un altro dettaglio che mi piace riguarda il rapporto tra Duarte, il marito portoghese della madre e Germano. Un rapporto che è molto profondo. Quando si abbracciano Germano sente il battito cardiaco di Duarte. Ci ha provato anche con le donne facendoci l’amore, ma in fondo ha deciso che l’unico cuore che sente battere davvero, l’unico che gli ha ridato un po’ di pace, è quello di Duarte.
Il titolo Figli dello stesso padre l’hai scelto tu?
Sì. All’inizio si chiamava I due fratelli, ma non mi convinceva, perché Emilio e Germano sono fratellastri e Figli dello stesso padre è un modo migliore per dirlo. Anche perché poi, per me, si può essere soltanto fratelli.
Quanto ci hai messo a scriverlo?
Non molto, più o meno cinque mesi, tra gennaio e giugno del 2012.
Quando e dove scrivi i tuoi romanzi?
Quando posso, tra Roma e Lisbona. Non scrivo in modo metodico, ma quando sto preparando un romanzo vivo in modo un po’ schizofrenico perché la testa non smette mai di pensarci, anche se magari sto facendo la spesa. Poi, quando mi metto alla tastiera sembra che sto scrivendo sotto dettatura perché non mi fermo un attimo.
Quali sono i tuoi scrittori di riferimento
Sono tantissimi. La mia formazione di base è omerica e greca: Iliade, Odissea, Senofonte, etc. Del passato amo molto anche L’Orlando furioso, La chanson de Roland, tanto che mi figlio l’ho chiamato Rolando, e il Don Chisciotte
E del ‘900?
Considero Elsa Morante un maestro, poi amo Tabucchi che è stato un amico, il brasiliano Joao Guimarães Rosa e molti scrittori latinoamericani. I tre libri d’amore più belli del novecento per me sono Memoriale dal Convento di Saramago, Il grande Sertão di Guimarães Rosa e L’amore ai tempi del colera di García Marquez.
Come vivi la tecnologia nel tuo lavoro?
Sono un po’ imbranata. Sono arrivata anche in ritardo al computer. Prima scrivevo a mano e poi copiavo a macchina. Ma non era un vezzo, il rumore della vecchia macchina da scrivere, un tasto dopo l’altro, mi distraeva, mi infastidiva. Poi gli editori mi hanno detto basta. Così ho fatto un corso di dattilografia per usare tutte le dieci dita e la testiera del computer, che è silenziosa, è diventata un’alleata perché, per una che scrive in modo impulsivo come me, permette di scrivere alla velocità del pensiero, cosa che a mano non potevo fare e a volte mi perdevo qualche frase.
In Twitter ci sono da pochissimo. Dal 2008 ho aperto una pagina Facebook che all’inizio, sono sincera, mi gestiva un’altra persona. Poi ho cominciato a fare da sola e ora lo trovo abbastanza divertente. Però non sono un’appassionata. Pensa che sono cinque anni che vivo senza la televisione. Vedo solo film in Dvd. È stata una scelta che ho fatto all’inizio più per mio figlio che per me, perché era diventato videodipendente, ma è stata una decisione dalla quale ho tratto molto giovamento. Perché alla fine, la Tv se ce l’hai l’accendi, è una tentazione. Invece adesso la sera quando stacco, se non devo scrivere, mi metto a leggere. E io voglio poter leggere sempre. E non solo quello che sono obbligata a leggere per lavoro, ma anche quello che mi piace.
Quando finisci un libro chi è il tuo primo lettore?
Mia madre da quando a vent’anni ho cominciato a scribacchiare le prime cose. Scrivevo di sera e il giorno dopo le leggevo tutto quello che avevo scritto. E lei mi ha sempre incoraggiato molto. È una lettrice attenta e i suoi consigli sono utilissimi.
Secondo me i legami del sangue, (come dici tu), se non succede qualcosa,possono non farsi sentire per tutta una vita. Dico questo perchè ci sono persone incapaci di autocoscienza, e capaci invece sempre e comunque di accusare tutti gli altri.
Con simpatia Lucrezia