Il bambino indaco fa discutere
Ho scoperto l’esistenza de “Il bambino indaco” di Marco Franzoso il giorno stesso della sua uscita in libreria il 7 febbraio, grazie a Twitter. Einaudi, che pubblica il romanzo, aveva sapientemente attirato l’attenzione di molti utenti del social network condensando in messaggi di pochi caratteri il tema, straziante e attuale, che sta alla base della storia: una madre anoressica e ossessionata dalle più bizzarre filosofie olistiche, incapace di vedere la sofferenza del proprio neonato davanti alle privazioni alimentari a cui lo sottopone. Il narratore della storia è il padre del bambino, un uomo le cui insicurezze e il grande amore per la moglie impediscono di accettare l’idea, almeno al principio, che la donna che ama stia affamando suo figlio.
“Il bambino indaco” in pochi giorni ha generato decine di commenti, la maggior parte lusinghieri, sia su Twitter che sui vari blog specializzati presenti in Rete. Io li leggevo e non sapevo decidermi: come lettrice e blogger ero tentata di correre a comprarlo, come madre ne ero profondamente spaventata. I miei figli non sono più neonati, ma immaginarmi il loro pianto straziato per la fame mi provocava un senso di panico che non ero certa di saper controllare.
Un giorno, ho ceduto. Io che piango anche quando Stallone urla “Adriana!” nella scena finale di Rocky (sì so che fa ridere ma è vero) l’ho acquistato e ieri sera l’ho letto d’un fiato.
È un romanzo breve, “Il bambino indaco”. Centotrentadue pagine “facili”, senza intoppi, senza cedimenti. La trama domina su ogni altra cosa e soprattutto è molto meno angosciante di quel che avevo temuto. È il linguaggio del narratore che impedisce al dramma di trasformarsi in emozione devastante nella mente del lettore.
In una recensione eccellente uscita su Saturno, inserto del Fatto quotidiano, lo scrittore Paolo Nori scrive: “La lingua, le immagini, sembrano essere mere funzioni della trama di un racconto in bianco e nero, con dei personaggi privi di corpo, privi di voce; perfino il sole è ‘biancastro’ e quando, succede più volte, nel romanzo, il protagonista suda, ti meravigli, che sudi. Non smetti di tornare con il pensiero alla trama, ma non ti resta in mente una frase, una voce, una faccia, perchè non ci sono, e l’unico nome che ti ricordi, alla fine, è il nome del bambino indaco, Pietro, chissà perché”. Io, sinceramente, ho faticato anche a ricordare questo nome perché viene citato molto tardi, quasi non fosse il protagonista involontario di questa storia di follia. Il padre, infatti per molte pagine lo indica soltanto come “il bambino”. La critica di Paolo Nori è stata successivamente contrastata da Tiziano Scarpa, autore tra l’altro del testo pubblicato sul risvolto di copertina del libro di Franzoso, che ritiene non solo che “Il bambino indaco sia raccontato molto bene” ma anche che “il romanzo non è soltanto l’esposizione della trama: è anche il ritratto del modo di esprimersi del protagonista-narratore nella sua situazione”.
Io non ho forse l’autorevolezza per promuovere o bocciare l’una o l’altra posizione, però mi permetto di introdurmi in questo dibattito di sole voci maschili come lettrice donna e come madre. “Il bambino indaco” è una storia forte, che potrebbe toccare in modo profondo i nervi scoperti di molti (e molte) di noi, invece, proprio per questo linguaggio così scarno, più intriso dei sudori del protagonista che delle sue emozioni, lascia il lettore non dico indifferente, ma sicuramente poco coinvolto.
Abituati a leggere atrocità sulle pagine dei quotidiani, il romanzo in certi tratti appare come un lungo articolo su un fatto di cronaca in cui il giornalista, per dovere, cerca di non forzare la mano con le proprie opinioni o sentimenti. Eppure in alcune pagine Franzoso incastona piccoli gioielli di stile che rivelano una capacità evocativa tenuta nascosta:
“La bellezza ci chiamava, ci sceglieva perché sapeva di essere riconosciuta da noi, sapeva che eravamo ingordi della sua meraviglia e che qualsiasi forma avesse assunto noi l’avremmo riconosciuta”; “La donna chiuse gli occhi e iniziò a muovere le mani sopra il corpo come carezzando qualcosa, lisciando qualche densità dell’aria che noi non potevamo né vedere né sentire…”; “Chi sei?, chiedo silenziosamente. Qual è il tuo segreto? Perché non ti conosco?”.
Comprendo la volontà di Franzoso di adeguare il linguaggio al narratore ma, viste le potenzialità accennate, come lettrice mi sarebbe piaciuto ricevere una manciata di emozioni in più che avrebbero senz’altro fatto di una buona storia una storia indimenticabile, quasi un marchio a fuoco nell’anima.
Titolo: Il bambino Indaco
Autore: Marco Franzoso
Editore: Einaudi
Pagine: 132
Prezzo: 16 €
Voto: 7
Cara Patrizia,
la tua scrittura, anche nel caso di una recesione, come questa, è così piacevole da trasportare il lettore fino alla fine, sempre.
Un’analisi molto arguta e coraggiosa, di cui mi sono già complimentata con te via Twitter.
Permettimi qui, dove ho ben più di 140 caratteri a disposizione, di dilungarmi un pochino per dirti che lo stile scarno di emozioni di Franzoso è, dal mio punto di vista di lettrice e di madre, la scelta migliore per raccontare un dramma di questa portata.
In questo modo le emozioni emerse sono diventate mie, e mie sole: come l’inquietudine, che ho potuto elaborare senza influenze da lettura. Merito di uno stile ascitto, non sbavato, ma anche di quella narrazione maschile che caratterizza tutte le 132 pagine.
Buona domenica
Grazia
Cara Grazia, prima di tutto grazie per le belle parole che rivolgi alla mia recensione e per avermi lasciato il tuo commento.
Comprendo quello che intendi e da un certo punto di vista sono grata a Franzoso per non avermi offerto dettagli emotivi che mi avrebbero fatto sicuramente del male. Diversamente da te, tuttavia, non sono riuscita a far emergere da sola quelle emozioni che tu invece hai potuto “elaborare senza influenze da lettura”. Forse, dopo giorni passati a dubitare sull’opportunità di leggere o meno il romanzo, mi ero già costruita una barriera che mi ha protetta dal dolore, forse il fatto che il romanzo non mi sia del tutto “entrato” dipende anche dal momento della vita in cui mi trovo, non saprei. In ogni caso concordo con te sulla bravura dell’autore al quale mi piacerebbe domandare se si tratta di una storia vera. Io spero tanto di no.
Grazie ancora e a presto.
Leggendo il romanzo ho subito pensato che potesse trattarsi di una storia con molti riferimenti reali: tra l’altro conoscevo di Franzoso il rpgetto Ragazze del Nord-Est, che ha preso spunto da interviste e incontri con molte donne e ragazze.
Avevo quindi la sensazione che il romanzo prendesse spunto se non da tali racconti da altri.
In settimana ho avuto l’opportunità di chiedre all’autore quanto c’era di vero, di reale, nel suo romanzo e mi permetto di trascriverti la sua risposta:
“E’ tutto vero. Narrazioni che mi sono state fatte in prima persona da chi le ha vissute.”
Del resto, la realtà supera ogni fantasia, no?
A presto!G.
Grazie mille per l’informazione che mi addolora ma non mi sorprende più di tanto. Come tu ben dici la realtà spesso supera la fantasia. La follia umana non ha davvero confini.
Alla prossima.
E va bene mi hai convinto! Lo leggerò… sono sempre molto diffidente sui libri che parlano delle tragedie della condizione di alcuni bambini.
Uno perchè ne ho vissuta una riguardo ai miei figli ( che non son più due, ma uno solo ), una malattia incurabile me ne ha portato via uno, non sempre chi mi avvicina lo vuole sentir raccontare.Anzi di solito fuggono a gambe levate per la paura e il terrore che questo evoca ( soprattutto nelle donne-madri )e come non capirlo??
L’altra perchè ho dedicato parte della mia vita ad aiutare adulti che non si ricordavano più di essere stati bambini e facevano pagare le loro frustrazioni e infelicità ai loro figli.
Ma tranquilla non sono una donna che vive di solo dolore, anzi.
Chi mi consce a fondo sa che passare attraverso certi dolori o ti sconfigge o ti fa apprezzare la vita ancora di più. Quindi buttiamoci anche nella lettura del bambino Indaco!
cosa mi può spaventare ???
Grazie Patriziaun abbraccio sempre interessanti i tuoi spunti.
Viviana, ho letto e riletto il tuo commento con un nodo in gola. Mi dispiace immensamente per la tragedia che hai vissuto e come madre non oso nemmeno immaginare il dolore che porti dentro di te.Ti ammiro perché da quello che mi racconti il tuo lavoro aiuta i bambini che sono quanto di più bello esiste a questo mondo. Sono sicura che la lettura di questo libro non potrà fare del male a una donna coraggiosa come te, ti darà solo la voglia di salvare altri bambini dalla follia degli adulti. Grazie mille per le tue parole. Attendo il tuo commento.
Cara Patrizia, non voglio infliggere tristezza a nessuno:purtroppo non sono la sola e unica madre al mondo che vive uno strazio del genere, tante madri da altre parti del mondo vivono quotidianamente l’orrore di non poter dare ai loro figli qualcosa che si può chiamare “VITA”.Quindi ho imparato a non compiangermi come se fossi l’unica a cui è capitata una disgrazia.Il dolore è un sentimento strano a un certo punto( dopo un tot di gradi vari di rabbia disperazione e smarrimento), te lo porti dentro di te e basta, ti accompagna ti forgia e non ti fa più tristezza.. è qualcosa di tuo.
In realtà da una decina d’anni ho “staccato” dal mondo del sociale. E mi sono creata un’altra professionalità faccio lo Chef di cucina.. All’inizio avevo molta paura di perdere pezzi di tutto quello che avevo acquisito, ma incredibilmente tutto il bagaglio di esperienza continuo ad esercitarlo anche nelle cucine dei Ristoranti.
Alla fine non ho smesso di educare/insegnare/sostenere. Sai nelle cucine dei ristoranti oggi, ci sono quasi sempre extracomunitari in difficoltà con la lingua, le mansioni che non capiscono e la burocrazia e non so com’è: si appoggiano a me per farsi aiutare.
Mi prendono tutti in giro dicono che adesso faccio sia servizio sociale che la cuoca e mi pagano solo per una delle due professioni ahahahah..
Comunque non sono una ragazza triste solo un po’ segnata dalla vita e chi non lo è ?
Alla prossima
carissima, grazie per avermi consigliato la tua recensione.
non credo riuscirò a essere brava e pacata come te, ma ti lascio qualche riflessione
ho comprato il libro spinta dalla curiosità e dai commenti che leggevo su twitter. ho tenuto il libro accanto al letto per qualche giorno senza riuscire a decidermi. sono mamma da tre anni e mi spaventava molto. Il pianto per fame, per sofferenza o peggio ancora un piccolo che non riesce più neanche a piangere.. non volevo assolutamente “trovarmi” in quella dimensione.
Poi mi sono detta, è solo un libro!
L’ho divorato e non mi accadeva da un bel po’, quindi un punto a favore per Franzoso; ho pianto – un altro punto a favore – mi sono arrabbiata e irritata – a sfavore? – mi sono sentita precipitare anch’io nel gorgo come il protagonista – a favore.
Però il gorgo e il vortice di disperazione sono davvero troppo repentini, tutto accade in un attimo (indaco) senza che l’autore ci conduca nell’animo della madre. E questo mi ha permesso un certo distacco, alla fine – definitivamente un punto a sfavore. Così come la figura del padre, così poco padrone di sé, ha prodotto in me ancora più insofferenza.
Condivido ci siano nel libro piccoli gioielli di stile, ma manca qualcosa.
Se conto, però, sono più i punti a favore.
Cara Sara, alla fine, con un po’ di punti in più o in meno, mi sembra che siamo abbastanza d’accordo: Marco Franzoso ci sa fare. Grazie per il tuo commento. Al prossimo libro.
La prima domanda spontanea è: ma può chiamarsi padre uno che non fa niente quando sente il pianto di suo figlio ammalato? Ama sua moglie? bene, bravo. Come mai non capisce che anche sua moglie è da “nutrire” per aiutarla a nutrire suo figlio? Anzi PIETRO che piange, PIETRO che non ha più forze per piangere, PIETRO che sta morendo? Questo sì che è atroce.
Ovviamente, non avendo letto il libro né visto il film, mi baso sulle tue parole. Indubbiamente belle e toccanti. Ma che in me, madre, hanno suscitato rabbia.
Hai ragione, anch’io durante la lettura avrei voluto dare due schiaffoni al padre per scuoterlo e fargli vedere la realtà. La rabbia ci sta tutta, ma è anche vero, Clara, che come dice il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Il padre di Pietro rifiuta semplicemente l’idea che la donna che ama, la madre di suo figlio, possa far del male al bambino. Ci vorrà tempo affinché si renda conto di quello che, invece, accade davvero tra le mura di casa. Allucinante, ma forse non impossibile.