Le affinità alchemiche. Gaia Coltorti
Un amore scandaloso, contrario alle leggi della natura, due fratelli gemelli separati da piccoli che si ritrovano nella tarda adolescenza e si innamorano perdutamente contro ogni logica, contro ogni morale. Le affinità alchemiche della ventenne Gaia Coltorti, al suo esordio per Mondadori, prende posto il 15 gennaio sugli scaffali delle librerie e promette di fare scintille.
Il rapporto clandestino e incestuoso dei gemelli Giovanni e Selvaggia, che qualcuno ha già ribattezzato i Romeo e Giulietta del XXI secolo, ha come sfondo le vie di Verona e come colonna sonora languide e appassionate dichiarazioni d’amore, che sorprendono in bocca a due ragazzi di oggi, protagonisti di un romanticismo che credevamo estinto. Il sentimento travolgente che investe Selvaggia e Giovanni e che li porterà al bordo dell’abisso, viene narrato con un linguaggio che brilla per originalità, sebbene talvolta pecchi di giovanile entusiasmo. I vari “gulp!” “uh” e “gasp” disseminati nei dialoghi, non sempre realistici e a tratti un poco puerili, si fanno ben perdonare attraverso pagine intensamente liriche, che obbligano il lettore a inoltrarsi nella vicenda, ormai incatenato al destino dei due sfortunati amanti.
Quella era una notte di cieche lancette e la tua veglia avveniva sotto un arco di spine, poiché non vi erano scuse, e tu, pur essendo il pazzo che eri, sapendo quel che provavi per tua sorella, non potevi continuare a mentirti e credere che raccontarti questa storia in un altro modo sarebbe servito a sedare la tua inquietudine.
Il mondo adulto, rappresentato nel libro dal padre e dalla madre di Selvaggia e Giovanni, impegnati a ricostruire il proprio matrimonio dopo anni di separazione, appare sullo sfondo della vicenda come un’arena popolata da esseri infantili, concentrati su se stessi e incapaci di comprendere i tormenti e i timori che invadono gli incubi dei giovani protagonisti.
…scambiando occhiate d’intesa ogniqualvolta i vostri genitori s’inabissavano nei loro infantili discorsi da adulti.
La distanza tra figli e genitori è siderale e non c’è dialogo o promessa che possa scalfire il “guscio” che i fratelli hanno creato per difendere il proprio amore dall’ostracismo della società. Nemmeno gli amici hanno un ruolo, perché non ci può essere comprensione, né perdono per chi infrange regole sacre.
D’un tratto avresti avuto una gran voglia di giudicare chi ti giudicava, con lo stesso uguale e identico ribrezzo che tutti costoro vi portavano, dato che non avevano nessun diritto di esprimere sentenze nei vostri confronti. Se ti consideravano un maledetto, più maledetti erano, a tuo giudizio, coloro che non comprendevano la radice profonda dell’amore che ti legava a Selvaggia.
È in questa solitudine che si muovono i personaggi de Le affinità alchemiche, le cui attività, al di fuori della coppia (il nuoto agonistico per Giovanni e la ginnastica artistica per Selvaggia) diventano sempre più marginali fino a svanire, lasciando i due giovani in balia di un dramma più grande di loro.
Piacerà questo esordio, piacerà soprattutto ai giovani innamorati dell’amore che non daranno peso a qualche pagina trascinata o a qualche licenza sulla realtà (come due sportivi professionisti che non si allenano quasi mai o due adolescenti che non fanno uso nemmeno una volta di una chat o una pagina facebook), perché a riempire quelle lacune intervengono i tanti brani densi di tenerezza e passione.
Lei che era la tua maîtresse, certo, ma anche la tua consolatrice nei momenti tristi, e la vivacità di quando ti sentivi indolente e pigro. Lei che era la tua Psiche dalla leggiadria infinita, e la tua Lesbia più sensuale; la tua Circe soggiogatrice, e la Marzia più empatica; la tua Calliope – la poesia più pura – e la ritrosa Dafne che profuma di rosa. Oh, lo sai, avresti potuto nominare tutte le Muse amanti dell’Arcadia, finché il loro elenco non si fosse concluso. Ché a quel punto sarebbe toccato a te, inventare ancora dei miti, se sul serio volevi ricominciare da capo a descrivere ciò che lei rappresentava per te.
I riferimenti letterari sparsi per il romanzo fanno onore alla giovane età della scrittrice, capace di integrare l’immediatezza del linguaggio adolescenziale con rimandi culturali più raffinati.
Le affinità alchemiche è uno di quei libri che scatena tempeste interiori, provoca sentimenti di repulsione e condanna, ma anche di tenerezza e indulgenza e, quando si chiude, ci lascia smarriti a riordinare i pensieri.
Una buona prova giovanile. Una lettura per tutti. Di quelle che fanno discutere.
- Titolo: Le affinità alchemiche
- Autore: Gaia Coltorti
- Editore: Mondadori
- Prezzo: 15€
- Voto: 7 1/2
A me sembra ridicolo. “Lei era la tua maitresse”, ma andiamo. E davvero vogliamo credere per l’ennesima volta che una ragazzina di 17 anni (tanti ne aveva, dice, quando ha scritto qesta storia) comunque, sia in grado di scrivere in questo modo? Probabilmente un editor molto adulto lo ha riscritto da capo. Poi, siccome è Mondadori, bisogna parlarne bene per forza, giusto? Guai a inimicarseli
Gentile Liz, ognuno è libero di credere ciò che vuole, io, tuttavia, non ho motivo di dubitare che l’autrice del romanzo, che oggi ha solo vent’anni, possa averlo iniziato a diciassette. Di fatto nella mia recensione sostengo che alcune pagine peccano di infantilismo e ingenuità. È molto probabile che, dietro, ci sia la mano di un editor esperto,come lei dice, ma questo accade anche con romanzi di autori ben più noti e maturi. Ad ogni modo, non è certo affare di chi recensisce il prodotto finito indagare sulle fasi di lavorazione del romanzo. Chi lo legge si limita ad esprimere un’opinione personale ed è offensivo affermare che questa possa venire pilotata dalle case editrici. Leultime20.it non ha alcun rapporto economico o interessi privati nei confronti di Mondadori, né di altri gruppi editoriali, tant’è che nella sezione “Pagelle” di questo blog potrà facilmente trovare stroncature relative a libri di diversi editori di grandi dimensioni, tra cui anche Mondadori. Qualche titolo? Dalle famose 50 sfumature da me ritenute “ingiudicabili”, a “Lo spacciatore di carne”, esordio col botto del cantante dei Negramaro che pur essendo pubblicato da Einaudi non arriva a un 6 scarso, o il banale “In città zero gradi” di Glattauer, edito da Feltrinelli, che si è beccato un bel 4. Come vede, non è il nome dell’editore a influenzare il giudizio. Se un romanzo mi piace, lo dico. Tutto qui.
Mi rendo conto che non sia facile accettare che una ragazza (o un ragazzo) di soli 17 anni possa possedere e gestire magistralmente un linguaggio forbito che certamente è al di sopra della media della popolazione. Ma la ragazza in questione ha delle capacità che lei ed io, Liz cara, non può immaginare. Quindi, da ragazza piccolina quale sono, le dico che esistono delle persone capaci di ricreare dei mondi fatti di parole magnifiche anche se sono così piccole di fronte al mondo dei grandi. Per citare la Coltorti (che mi ha rapito totalmente in un solo giorno): “…e si persero di nuovo nei soliti infantili discorsi da grandi”.
Prima di immaginare complotti cerchiamo l’autenticità delle piccole cose. Le parole sono solo piccole cose, eppure quanto possono fare.
*sono costernata per l’errore di svista…io e lei, cara Liz, non POSSIAMO immaginare…
Mi scuso sin da ora.
L’ennesimo romanzetto adolescenziale per ragazzini “accalorati”. Un libro semplicemente patetico, pubblicizzato con tanto di tromboni e nacchere, la Mondadori ha abilmente sfruttato la storia mediocre (alias masturbazione mentale) di una adolescente, per vendere ancora una volta una manciata di libri allo scopo di assecondare la malizia e il guardonismo tipici del pubblico giovane di oggi. Se 50 anni fa storie di tal calibro sarebbero state relegate ai fotoromanzi, oggi ahimè certi temi sono arrivati in libreria. Se desiderate leggere qualcosa di patetico, a momenti parodistico, che sembra quasi avere la sfrontatezza di paragonarsi ad un classico intoccabile quale Romeo e Giulietta, questo è uno di quei romanzi irritanti fortunatamente rari.
Ai fratelli Super-Nerd e al resto d’impareggiabili amici Casi Clinici che impestano dei loro giudizi meravigliosi i differenti cieli del Web, noi vorremmo far presente che davvero li si considera tutti quanti fratelli in Cristo, e in nessun modo si vorrebbe venisse loro torto un capello né, tanto meno, comminata alcuna pena sul genere di quella sopportata dal povero Damien (1757), tanto pietosamente descritta da Michel Foucault all’inizio di “Sorvegliare e punire”.
Poiché noi si viene in pace, accidenti.
Pace.
E anche a tutte quelle care sorelle intente a rilasciare i loro sempre benvenuti giudizi smitragliati un po’ ovunque e in genere afferenti gli stramaledetti romanzi “scorrevoli” – “L’ho appena iniziato, ma già scorre bene”; “L’ho divorato in una notte e l’ho trovato piuttosto scorrevole dapperttutto” – noi si è qui per dire: “Pace”.
Solo, il fatto è che ormai neppure nonna Fernanda, una ricamatrice nata a cavallo fra le due guerre, troverebbe più opportuno parlar di libri facendo ricorso a metafore tanto scopertamente lubrificanti, anche perché – ma nonna Fernanda è anziana, si capisce – ma in certo qual modo non va bene, specialmente per le donne, di mandare in onda tutte codeste vagonate di doppi e tripli sensi a sfondo… sì, be’, sessuale, ecco.
Ciò detto, le buone narrazioni e i romanzi davvero belli non possono per loro più propria natura produrre effetti, sensazioni, aromi o essenze che sarebbe di gran lunga più congruo ricercare – ma non è che un ipotesi – forse in profumeria. O in erboristeria.
I romanzi che veramente hanno da dirci qualche cosa, non possono compiacerci, né carezzarci né, innanzitutto e per lo più, rasserenarci.
“Madame Bovary” (1857), è ancora oggi una grosso magone, da mandar giù.
E anche “Luisa e il silenzio” (1997) di Claudio Piersanti, difficilmente vi lascerà come vi ha trovate.
Lo stesso vale per i libri di Daniele Del Giudice, Pier Vittorio Tondelli e altri ancora – Carver, Dubus, oppure il John Williams appena riscoperto di “Stoner” (1965) – a proposito dei quali non diresti per prima cosa che sono “scorrevoli”.
Determinate supposte antipiretiche, avranno da esserlo, eventualmente, se del caso, ma i romanzi davvero belli e i capolavori, gentili sorelle, fratelli Super-Nerd e amici Casi Clinici, no.
Ora, “Le affinità alchemiche” di Gaia Coltorti, essendo un libro bellissimo e importante, non lo si può bere come un bicchier d’acqua, poiché Johnny e Selvaggia, i due protagonisti, proprio come avviene per i protagonisti della tragedia di Ford “Tis Pity She’s a Whore” a cui il romanzo si ispira, non fanno che riflettere, nel carattere esaltato e morboso della loro passione, “la miseria generale della realtà in cui sono costretti a vivere e alla quale reagiscono”.
La malinconia che vince i nostri due giovani, “è il marchio del loro isolamento”, e la bellezza, che per questi ragazzi sembra contare così tanto, “rappresenta il rifiuto di entrambi nei confronti di un mondo abietto”. Certo, il loro amore condannato dalle leggi della società non può che perire, dopo essere fugacemente fiorito, ma attraverso quell’amore, Giovanni e Selvaggia affermano “la propria identità, la propria sete di assoluto, la propria ricchezza interiore, di contro alla grettezza dell’ambiente circostante”.
“Tis Pity She’s a Whore” venne pubblicato per la prima volta nel 1633.
Patroni Griffi ne trasse, trentadue anni or sono, il film “Addio fratello crudele” con la Rampling e un più che statuario Fabio Testi nel ruolo di Soranzo.
E dunque, cosa mai significherebbero – oggi, adesso, nel 2013! – certune pose d’ostentato raccapriccio e afflizione e grossi dinieghi, anche, fatti proprio scotèndo la testa come quei cari cagnetti sul lunotto posteriore dell’850 di nonno, di fronte a una vicenda artistica rappresentata in tutti i teatri del mondo – praticamente nel ruolo di Selvaggia ci trionfò la Duse, cazzo – da grosso modo quattrocento anni a questa parte?
Gesù.
È abbastanza “scorrevole”, così? O lubrifichiamo un attimino?
Del Paraflu ne gradite?
Thelma & Louise 2013
Ciò che rende subito particolare la luce inimitabile in cui questo romanzo è immerso, è che certi personaggi sono spesso solo rapidamente (ma mirabilmente) tratteggiati. Alcuni sono esili come ombre – Nautilus, Paranoia, certi professori, i genitori stessi, – ma questa “povertà” consente un effetto molto speciale, ossia fà in modo che il labirinto delle tante volte in cui Giovanni e Selvagga decidono per il peggio sprofondando, divenga di minuto in minuto più ineluttabile, nitido e intenso. Fra l’altro non so bene perché, ma anch’io come certe mie colleghe m’immagino che una Jane Austen avrebbe impedito a Giovanni di cadere nella trappola. L’avrebbe fermato. Magari appena in tempo, e in quel modo, fermando lui, avrebbe salvato entrambi i ragazzi. Ma comunque la Austen scriveva due secoli dopo Shakespeare, in un’epoca già più moderna e certamente meno arcaica di quella elisabettiana.
Le affinità alchemiche mi ha soggiogata. Lo dico sorridendo, certo. Non sono un’adolescente. E tuttavia, non so come, ma è proprio così che è andata
Con ogni evidenza, all’autrice interessa raccontare storie il cui genere non sia definibile tramite gli aspetti più esteriori. Dunque, credo ci inviti a leggere “Le affinità alchemiche” senza decidere per prima cosa se il suo libro rientra nel genere dei “remake”, dei romanzi-cover, eccetera. Anche se determinate situazioni e dinamiche appartengono chiaramente a Shakespeare, al teatro elisabettiano e al John Ford di “Peccato che fosse puttana”, gli imprestiti e le intertestualità rintracciabili in questa narrazione così suggestiva e catturante sono una quantità. Personalmente vi ho riconosciuto Trakl, il Tondelli di “Camere separate”, Panella-Battisti e altri ancora di cui sono meno certa. A dimostrazione, in ogni caso, dei modi accurati con cui il libro è stato scritto e della ricchezza inusuale di rimandi che lo abitano. Esempio raro se non addirittura unico di questi tempi in cui trionfano solo poverissime scritture un tanto al chilo.
C’è molto spesso qualcosa, nel “look” e nelle atmosfere di parecchi romanzi tradizionali, che consente al lettore di porsi a una certa distanza dai personaggi e guardarli come fossero personaggi su un palco.
Personalmente mi sembra che all’autrice delle Affinità alchemiche interessi, invece, trasmettere al lettore quanta più vicinanza e coinvolgimento possibili, utilizzando una lingua strepitosa. Questa è una storia bellissima che, come un maëlstrom, ti tiene legata per cerchi concentrici sempre più veloci alle sue pagine fino allo straziante finale. Però è tremendo che questi due giovani debbano pagare ancora oggi, in una società che si pretende evoluta, un prezzo tanto grande.
Per quanto pazzeschi e sommariamente scritti essi possano apparire ai nostri occhi, ovunque si pubblicano “harmony-novel” travestite da romanzi tout court, e narrazioni larmoianti che blandiscono e raggirano il prossimo, specialmente i più giovani, con scritture bidimensionali e linguaggi – proprio come i televisori che si ha piacere di sfoggiare in tinello – ultrapiatti.
Gaia Coltorti, invece, ha il merito di porre in campo due giovani protagonisti terribilmente ben raccontati e, nel contempo, raggirabili senza difficoltà da dinamiche del desiderio di cui nulla sanno. Così, questa giovanissima jesino-romana riesce a far luce in modo molto critico sulla vera realtà di tanti fidanzati di oggi, quasi-mutanti tenaci-fragili, sensibili, superomistici e piagnoni insieme, di cui si avevano fin qui solo notizie – con buona pace degli studiosi alla Crepet – del tutto incerte o di comodo.
Una delle cose più brutte che abbia mai letto! E dire che ne leggo di cose trash, ma ragazzi, qui raggiungiamo livelli inenarrabili sia come storia ( e non parlo mica dell’incesto!) che come linguaggio!
Un grande (e modernissmo) romanzo sulle passioni amorose,
destinato ai lettori più esigenti
di Chiara Malerba ed Evita Greco
Sintassi fluide e lineari al servizio d’un vocabolario limitato, coi periodi complessi evitati come la Maschera della Morte Rossa e una lingua ridotta a mero veicolo della narrazione, mentre i fattori che non riguardano direttamente il succedersi delle azioni e l’intrecciarsi delle vicende – digressioni, introspezioni psicologiche, decorazioni intrecciate a soluzioni tecniche ed esiti formali, descrizioni realmente ben fatte e degne di questo nome – vengono posti in secondo piano o totalmente ignorati poiché appesantirebbero l’opera (sic!) rendendola indigesta ai lettori eterodiretti?
Se avete in mente modelli del genere, per fare la vostra diagnosi non occorre un luminare: è probabile che non siate all’altezza. Nulla di terrorizzante. Pensate alla salute dei capelli e seguite il mio consiglio: scordatevi delle “Affinità alchemiche”. Diversamente, ecco una storia di passioni proibite e indomabili che, siamo certe, vi terrà compagnia nel tempo.
Sapido, urticante, postmoderno come nessuno; abitato da una scrittura capace di combinare “romanticismo ironico” e “narrazione realistica letterale”, questo eccezionale romanzo cattura i propri personaggi (e le rivalità in cui senza saperlo sono disperatamente immersi – sia i due genitori ex-separati, sia la coppia “nuova” e tragica costituita dai figli Johnny e Selvaggia), in modo di gran lunga più efficace di quanto uno stile “letterale in senso stretto”, o per converso uno “integralmente romantico”, saprebbe mai.
Poiché un conto è scrivere storie d’amore alla maniera naive e ultra commerciale di Jamie McGuire, oppure “Delirium” di Lauren Oliver, o “L’isola dell’amore proibito” di Tracey Garvis Graves, o l’anodino e larmoyante “Proibito”di Tabitha Suzuma, e un conto è fare di tutte queste cose in stile “harmony” (anche) una parodia consapevole – per esempio nello stesso modo in cui “Persuasione” di Jane Austen è una parodia del romanzo sentimentale e del romanzo gotico – ma in più utilizzando saperi molto nostri contemporanei (Girard + de Rougemont), il tutto a partire da una “cover” che guarda al teatro elisabettiano di Shakespeare e John Ford!
“Lo incontrai per la prima volta, questo romanzo, in un premio letterario di cui ero in giuria”, ha scritto in proposito il grande critico Angelo Guglielmi. “Non esitai a considerarlo, dei tantissimi testi arrivati, l’unico degno di considerazione e, quasi, di meraviglia. Scopro che l’autrice ha solo diciannove anni, e non posso non rimanere ammirato; non tanto per la sgradevolezza del tema trattato (e il coraggio di affrontarlo), ma per la sua (di un’autrice ancora quasi adolescente) capacità di raccontare una storia così ardua in modo semplice, non compromettendone la credibilità. La ricerca della verosimiglianza, che nel passato era l’obiettivo di un narratore, oggi, con la crisi delle filosofie del vero, è una scelta impraticabile e fallimentare, se non per la narrativa commerciale. Ma “Le affinità alchemiche” della Coltorti è tutt’altro che un romanzo di consumo, e piuttosto si presenta come un puzzle psicologico insolvibile, di cui lei (la Coltorti), misteriosamente indovina lo scioglimento”.
“La lingua, per uno scrittore, non è mai ovvia, scontata”, sostiene un altro grande uomo di libri come Ferruccio Parazzoli. “La lingua dei gialli da classifica è morbida, penetrabile, adatta al mercato e al lettore interessato al consumo, che vuol essere consolato o eccitato”. Ma il lettore vero – ed è questo il lettore che “Le affinità alchemiche” merita più d’ogni altro – “cerca nella letteratura un mezzo per decifrare il mondo e battersi contro il caos”.
Lavori per la Mondadori?
Secondo te, una persona che lavora per un’azienda del genere si preoccuperebbe di scrivere le cose che scrivo io e glielo lascerebbero fare.
“Gesù, fate postmoderna luce!” di Chiara Malerba
Di solito attribuita a uno stile narrativo postmoderno, la narrativa in seconda persona è forma dall’utilizzo piuttosto raro, in cui il “tu” viene adoperato dall’autore per rivolgersi al personaggio principale.
Utilizzata più spesso nei libro-game e nei giochi di ruolo, in pubblicità e – com’è nel caso di canzoni quali “Michel” (Claudio Lolli), “Famous Blue Raincoat” (Cohen), “Un malato di cuore” (De Andrè) e “L’apparenza” (Battisti) – in ambito musicale, l’uso della seconda persona non è comunque del tutto assente in narrativa, ove viene impiegata nei racconti brevi e in capitoli in cui l’autore, (o il personaggio preposto alla narrazione delle vicende) decide, come ho detto, di rivolgersi direttamente al protagonista.
Se fra i primi a utilizzare questa forma narrativa figura il Verga di “Fantasticheria”, oggi l’uso della seconda persona è di preferenza utilizzata dagli autori angloamericani, fra i quali Alice Munro e il McInerney delle “Mille luci di New York”.
Che dire allora, in via preliminare, di questo nostro Io-narrante “contiguo-critico”, sorta di “narratore-testimone” che, nelle “Affinità alchemiche”, sceglie di rivolgersi direttamente all’ottimo buon Giovanni, alias il protagonista maschile del dramma?
Intanto, l’innovativo Io narrante in forma di Tu non-generico escogitato per le “Affinità alchemice”, si mostra affatto diverso da quello utilizzato da McInerney per dar voce al protagonista Coach delle “Mille luci di New York”, o dalla seconda persona con cui, nella canzone “Michel”, il cantautore Lolli chiama in causa (si rivolge) a un vecchio compagno di scuola d’origine Francese: nel primo caso, è il protagonista a rammemorarsi e raccontarsi; in “Michel”, la memoria e i ricordi appartengono invece all’autore stesso.
Nel “tu” di “Le affinità alchemiche”, in modo ancora diverso da così noi affrontiamo, invece, un Io narrante dotato di una voce tendenzialmente critica e tuttavia vicina, da un punto di vista affettivo, a entrambi i nostri giovani innamorati pazzi – qualcosa che ricorda, nell’intenzione antiromantica, il modo con cui Flaubert guarda all’idiozia di Emma (desiderosa di “pariginità”, “quasi-santità” e forti spinte emotive dal taglio “romanticizzante”), o all’inanità e cecità ovunque babbèiche dell’indimenticabile Charles.
Com’è noto, un aspetto identificativo della narrativa postmoderna risiede nella considerazione auto-riflessiva, (che il narratore stesso pone nel testo), riguardante lo status di artefatto estetico di quest’ultimo: il narratore interviene nel racconto, espone volutamente i meccanismi narrativi, si lascia scoprire nell’atto di raccontare una storia da una prospettiva non convenzionale, prova a indirizzare l’attenzione del lettore sui processi di interpretazione d’un dettato disseminato di “a parte” o anche – come nelle “Affinità” tante volte accade – imbottito di onomatopee dei giornaletti e richiami letterari sempre volutamente sdati e/o “parodico-scolastici”.
Nelle “Affinità alchemiche”, l’autrice si mostra nell’atto di mettere in campo una cover “elisabettiana” niente affatto ovvia, (proprio come Luhrmann al momento di reinterpretare in chiave postmoderna il “Romeo+Giulietta”), mentre l’Io narrante chiama i personaggi direttamente in causa e, a tutta birra, riempie la storia di citazioni letterarie, sgonfiamenti antiromantici, botte in testa, “gulp!”, “gasp!” e anticlimax.
Come quasi tutti i romanzi postmoderni – che sono ironici, coraggiosi, abitati da riflessioni stratificate circa la nostra contemporaneità, e per ciò stesso si mostrano in grado di dare voce a un disagio profondo e risentito – anche “Le affinità” condivide con le avanguardie una certa foga, un certo impeto – seppure smussati, disincantati e resi, nel contempo, consapevolmente sardonici e beffardi: leggendo tra le righe dei romanzi di Nabokov, Pynchon o Easton Ellis non individuiamo, forse, una forte spinta innovatova, una notevole carica contestatrice, una rabbia e una risata amara tanto più dissimulta quanto più divertita, da farli apparire, persino, “irridenti”?
Ora, quanti lettori più giovani, (o meno avvertiti), muovono alle “Affinità” accuse del tutto identiche?
Com’è noto, scrivere un romanzo postmoderno significa giocare con citazioni e richiami, ma anche mescolare stili e registri linguistici, magari mettendo insieme linguaggi tecnici e scientifici con determinate vulgate dialettali: pensiamo al “Pasticciaccio” di Gadda, o al Pynchon de “L’arcobaleno della gravità”, nel quale l’autore mescola un inglese aulico e narrativamente ineccepibile, con un linguaggio scientifico “incongruo” e irritante, o il modello della trattazione storica, con le canzonette oscene degli anni Trenta…
Allo stesso modo, un certo uso metanarrativo del dettato permette, nelle “Affinità alchemiche”, di dar vita a una storia e, nel contempo, indurre il lettore a riflettere su come questa storia stessa gli viene raccontata, rendicontandolo sul fatto che un romanzo è un romanzo, ossia qualcosa in cui nulla è reale, nel mentre c’è sempre una tizia di nome Coltorti – un’illusionista? – che nel corso di tale illusione ininterrotta sceglie, di volta in volta, cosa mostrargli e cosa, “magicamente”, nascondergli.
Nelle “Affinità”, per concludere, un misterioso Io-narrante critica le azioni dei personaggi mentre l’autrice – lavorando a sgonfiare la trama di superficie per meglio trasformarla in vertiginoso teatrino di stronzaggini fra due disperati baggiani giovanili in preda all’escalation della passione rivalitaria – scava la più ineccepibile delle trame thriller a base di dinamiche del desiderio implacabili, cip-cip horror-sentimentali e sofferenze atrocissime indotte dalle bambinerie masochistico sadiche di Selvaggia sul povero, vittimario sardone tardoadolescenziale Giovanni.
Il tutto – gentilmente restino pur seduti – benissimo posto sotto la sferza minacciosissima e poi disatrosa d’una messa a morte fin dall’inizio annunciata.
Raccióne peccùi, tante grazie ppe tutti chisti suoi bellissimi lavori postmoderni, signorì Coltorti.
O me sto a sbajà?
Répondez s’il vous plaît.
RIPROPOSTA DI UNA VECCHIA STORIA…
Il romanzo di Gaia Coltorti si configura come una “riedizione” formalmente attualizzata del romanzo incestuoso “Colei che non si deve amare” di Guido Da Verona (1910), ripubblicato nel 2009.
Già in Da Verona vi erano le reminescenze di Romeo e Giulietta, di John Ford, di Dumas (La Dama delle camelie).
Uguale il canovaccio della trama: 1. sorella che irrompe nella vita del fratello, il quale si fa carico di farle “da guida” nel proprio mondo; 2. Svolgersi dell’idillio alle spalle dei genitori che di nulla si accorgono; 3. scandalo pubblico che distrugge la vita sociale dei due incestuosi; 4. ripudio della famiglia; 5. Tragedia finale, suicidio. Il fratello incestuoso del 1910 è un “sardone” tale e quale a Giovanni (succube). La sorella incestuosa del 1910 è come Selvaggia: senza senso morale, bellissima, perfetta, con alle spalle le sofferenze causatele da una madre libertina, capricciosa, bizzarra. Pure lei va matta per le collane. Mentre Selvaggia è “snodabile”, Loretta ha “un’incredibile pieghevolezza”. Entrambe sono deboli di spirito e generatrici di disastri. Concezione dannunziana della donna come forza nemica che porta l’uomo alla perdizione e al suicidio. Francamente non si rileva alcun elemento di vera originalità nell’opera coltortiana, a meno che non possa essere definito tale il finale alla Romeo e Giulietta, inserito un po’ frettolosamente a chiusura della storia. Fonte:
http://isegretidellemuse.blogspot.it/2013/04/corsi-e-ricorsi-degli-scandali-da-colei.html