La narrativa è uno specchio
Mi colpisce della “Lettura” del Corriere della Sera del 9 di aprile un’intervista all’ottantunenne premio Nobel Toni Morrison in cui la scrittrice, oltre a promuovere il suo nuovo romanzo in uscita in maggio negli Usa, parla delle sue preferenze letterarie e compila un elenco di scrittori da bocciare in quanto autori di opere troppo autoreferenziali.
Secondo la Morrison “la letteratura contemporanea sta cambiando in senso egocentrico e narcisista” e senza giri di parole la scrittrice etichetta Philip Roth, uno dei principali esponenti dell’attuale narrativa spesso basata su storie autobiografiche, come deprimente mentre liquida Jennifer Egan (che ammette di non aver letto) quale fenomeno destinato al dimenticatoio.
Poche righe prima aveva avuto parole di disprezzo anche per i social network, accusati di alimentare la tendenza alla diffusione di gossip personali e incapaci di generare contenuti culturalmente e socialmente rilevanti. “Da che mondo è mondo la scrittura richiede solitudine e concentrazione. Per quanto mi riguarda scrivo ancora tutti i miei libri a matita su un bloc notes giallo e solo alla fine li trascrivo al computer”.
La drasticità di certe affermazioni relative all’uso delle nuove tecnologie può non stupire visto l’età della scrittrice, che tuttavia trova alleati ben più giovani di lei come Jonathan Franzen, che lo scorso marzo, dopo essersi scagliato contro l’editoria digitale, aveva pesantemente criticato le reti sociali e Twitter in particolare.
Le critiche tra “colleghi” non sono certo una novità nel mondo editoriale e spesso, si sa, parlare male di qualcuno o qualcosa (specie se si tratta di un fenomeno di moda come i social network) consente di ottenere una visibilità ben superiore rispetto al prodigarsi in complimenti sperticati.
Nel caso della Morrison o di Franzen, tuttavia, risulta difficile pensare che tanta malevolenza sia il frutto di una strategia pubblicitaria della quale entrambi gli scrittori non devono di certo sentire la necessità. E allora perché tanto accanimento? E soprattutto perché, anche al di fuori dall’ambito letterario, siamo bombardati da articoli, recensioni, interviste e commenti sempre più feroci, impietosi e intolleranti? Cinismo e cattiveria abbondano anche nei social network. L’unico rimasto a parlar sempre bene di tutti sembra essere Vincenzo Mollica, il buonista per antonomasia della Tv italiana, sempre oggetto di scherno per questa sua peculiarità.
Senza la pretesa di mettermi nella mente altrui e basandomi sull’osservazione della realtà che mi circonda, oltre che sull’esperienza regalatami da tanti anni di incontri e interviste con le “tipologie umane” più diverse, mi sembra di capire che il modello comportamentale più diffuso sia quello basato sulla critica e non sul complimento. In altre parole, fin da bambini impariamo quanto sia più semplice parlare male di qualcuno invece di evidenziarne i pregi. In tanti hanno sperimentato la delusione di tornare a casa da scuola con un bel voto e sentirsi rivolgere un “bene, ma avresti potuto prendere fare di più” oppure “hai solo fatto il tuo dovere di studente”. In pochi crescendo si ribellano a questa logica.
Il ruolo della critica non è in discussione, è evidente che ogni idea può essere legittimamente giudicata, ma mi pare ci sia una tendenza, specie tra gli scrittori, che per definizione hanno in mano la possibilità di far circolare le loro idee, a una sorta di disfattismo, di avversione contro tutto e contro tutti.
L’ostilità della Morrison verso le nuove tecnologie appare puerile e dettata da scarsa conoscenza degli strumenti, soprattutto quando parla di mancanza di privacy. Chi sbandiera la propria vita sul Web sa di farlo, altri usano la rete con obiettivi ben diversi. Le accuse di parlare troppo di se stessi rivolte dalla scrittrice ai vari autori mi appaiono ancora meno giustificate. Perché mai uno scrittore non dovrebbe raccontare realtà che ha vissuto e conosce da vicino?
C’è spazio per ogni tipo di storia nelle menti dei lettori e con il criterio della Morrison non avremmo mai potuto accedere alla tragica realtà vissuta da Primo Levi durante gli anni del nazismo, ma nemmeno alle vicende dell’età del jazz di Francis Scott Fitzgerald che in ogni personaggio, dialogo e situazione ha messo molto di se stesso, e ancora Hemingway, Richard Wright o i nostri Italo Svevo, Grazia Deledda, Oriana Fallaci per citarne alcuni, fino ad Antonio Tabucchi scomparso da poco, che soleva ripetere che nella letteratura c’è sempre qualcosa di autobiografico.
Scrivere è uno specchio e in quei riflessi è compresa ogni cosa, l’insieme come il dettaglio, l’io e l’altro. Io non rinuncio a nulla.