Intervista a Carmine Abate: “Scrivere non è nulla, la riscrittura è quello che conta”
Dopo aver letto il suo ultimo romanzo, La felicità dell’attesa (qui la recensione), pubblicato da Mondadori, incontrare Carmine Abate era un proposito irrinunciabile. Avevo bisogno di conoscere lo scrittore che mi aveva fatto passare ore appassionanti attraverso un secolo di storia della sua famiglia letteraria (molto simile a quella reale), portandomi con i suoi parenti avanti e indietro tra la Calabria e gli Stati Uniti, alla ricerca del sogno americano e di una vita migliore.
Il desiderio si è realizzato a Milano, dove Abate, il 24 ottobre, giorno del suo compleanno, ha presentato il suo romanzo alla presenza di una folla di lettori entusiasti. E c’è da capirli perché lo scrittore è un personaggio a tutto tondo, generoso con il pubblico e con la stampa, il sorriso sempre pronto sotto i baffi e lo spirito di un ragazzino, nonostante le sessantuno candeline sulla torta.
Conversare con Carmine Abate, nonostante le continue incursioni di amici e conoscenti, desiderosi di fargli i complimenti o soltanto di salutarlo, è un piacere non comune. L’autore non risparmia le parole, ma non le usa mai a caso, esattamente come nei suoi libri. Simpatia, saggezza e cultura vanno a braccetto in questo ex-insegnante nato a Carfizzi (in provincia di Crotone) da una famiglia arbëreshë (gli italiani di origine albanese). Obbligato da ragazzo ad emigrare in Germania, per poi rientrare in Italia e stabilirsi in Trentino, Abate ha messo nelle sue storie il linguaggio, i colori e la voglia di riscatto della sua terra d’origine, un riscatto, nel suo caso, meritatamente ottenuto.
Tra un aperitivo e un telefono che squilla cominciamo a parlare del suo libro. La curiosità è tanta, il tempo poco. Ecco come è andata.
Carmine, ne La felicità dell’attesa ci sono tanti personaggi reali, tra cui spicca Norma Jean, al secolo Marilyn Monroe. La storia del suo amore giovanile con uno dei protagonisti del romanzo, Jon Leto (il padre “letterario” dell’autore, ndr), è vera?
Preferisco non rispondere…
Nooo, non puoi farci questo! È la storia più intrigante del romanzo. Dacci qualche pista.
Norma Jean è entrata di prepotenza nel romanzo perché un altro dei personaggi reali del libro, Andy Varipapa, il campione di bowling originario di Carfizzi, il mio Paese, diventato famoso e ricchissimo negli Usa, frequentava Los Angeles e Hollywood dove girò tantissimi film. È plausibile che lui e Norma Jean, che tra l’altro amava gli italiani, si fossero conosciuti.
Quindi la storia è vera?
A te sembra vera?
Assolutamente sì.
Allora sono riuscito nel mio scopo perché io per scrivere delle storie ho bisogno di personaggi reali che mi consentono di restare con i piedi per terra e ottenere la perfezione anche dal punto vista cronologico. Se la storia regge, ognuno poi crede quello che vuole. Però la foto di cui parlo nel libro esiste… Il romanzo, a partire dal nome del nonno, Carmine, è vero al 70%, il 30% è invenzione.
Parliamo di Carmine Abate scrittore. Come è cambiata la vita dal Campiello del 2012 a oggi?
È cambiata molto dal punto di vista degli impegni, ma io ho avuto una fortuna: vincere il Campiello quando avevo cinquantotto anni. Non ero più un bambino, perciò non sono stato schiacciato dal peso del successo. L’età mi ha preservato e mi ha responsabilizzato ancora di più. Mi ha fatto capire che dovevo continuare a scrivere delle storie autentiche in cui do una parte di me al lettore. Io, come narratore, non mi risparmio mai. Adesso, per esempio, non ho più nessuna storia in testa. Tutte quelle che avevo le ho messe ne La felicità dell’attesa. Ora sono vuoto.
Quanto ci hai messo a scriverlo?
Tre anni dal primo viaggio negli Stati Uniti, ma gran parte della storia mi è uscita di getto a partire dal gennaio del 2015. Forse anche a questo si deve la freschezza del linguaggio. In questo libro non c’è nulla di didascalico, è una storia e basta.
Qual è per te il ruolo dello scrittore nella nostra società?
Purtroppo più passa il tempo più lo scrittore ha un ruolo minore nella nostra società. Basti pensare al passato e al peso sociale di grandi nomi come Calvino, Pasolini, Sciascia. Le opinioni di questi scrittori, e non solo le loro storie, venivano davvero considerate. Oggi, invece, hanno successo scrittori d’intrattenimento che raccontano storie semplicemente divertenti o avvincenti. In ogni caso io credo che lo scrittore non debba essere un tuttologo. A me ormai chiedono opinioni su tutto, io quell’opinione ce l’ho, ma se non sono più che competente in materia, rifiuto di rispondere. Il mio mondo lo racconto nelle mie storie. Credo che uno scrittore debba scrivere delle storie che affrontino i grandi temi sociali. Io quando ho cominciato a scrivere mi illudevo davvero che la scrittura potesse cambiare non dico il mondo, ma almeno di un millimetro la visione della vita dei lettori. Ho cominciato a scrivere per denunciare la costrizione delle migrazioni. Confesso che ancora oggi dentro di me, anche se sono più disincantato, c’è una vocina che mi dice che devo continuare a insistere perché quello che scrivo può contribuire a superare le generalizzazioni, i pregiudizi e il razzismo, che sono tra i mali peggiori della nostra società. Io scrivo da una regione, la Calabria, che è schiacciata dalle generalizzazioni e voglio illudermi di contribuire, non dico a eliminarle, ma almeno a ridurle.
Parlando di partenze e migrazioni, i giovani italiani continuano a partire. Scelta giusta o sbagliata?
La felicità dell’attesa è un romanzo dedicato proprio ai giovani. Direi che cerca di rispondere a questa domanda, con la speranza che i giovani possano scegliere liberamente. Il problema non è parto o non parto, il problema è poter scegliere se partire. Io, come mio padre e mio nonno, sono stato costretto ad andarmene dall’Italia, non ho mai fatto una scelta libera. L’unica volta che ho scelto è stato quando sono tornato in Italia e ho deciso di vivere in Trentino, perché stava esattamente a metà tra la Calabria e la Germania. Amo molto quella regione perché l’ho scelta io.
Il titolo Il titolo La felicità dell’attesa è tuo?
Sì, io amo la parola felicità, ma so che è una parola pericolosa per il titolo di un libro. Sembra leggera, quasi da romanzo rosa. L’unico modo per rendere in pieno il valore di questa parola era trovare un genitivo che la valorizzasse. Ho impiegato nottate per trovare la frase di Sant’Agostino che dice: “Il presente del futuro è l’attesa”. Quindi la felicità dell’attesa è la felicità del futuro. Ed è proprio questa fiducia nel futuro, malgrado tutto, che hanno tutti i personaggi del libro.
Com’è Carmine Abate quando scrive?
Non credo di essere uno scrittore metodico, non seguo una scaletta perché chi scrive seguendola sa già cosa succede in ogni capitolo e come finisce la storia, visto che la pensa prima. Così facendo, però, toglie il bello della scrittura, che è la sorpresa anche per lo stesso scrittore. Una scaletta ingabbia una storia che magari ha grandi potenzialità. Può succedere che ci siano periodi in cui non scrivo nulla e altri in cui sto venti ora davanti al computer, magari senza scrivere nulla. Guardo lo schermo e vedo la storia passarmi davanti. Poi, improvvisamente, il giorno, dopo, comincio a scrivere. Scrivere però non è nulla. Quello che conta è la riscrittura. La seconda, la terza, la cura delle singole frasi. Scrivo di getto ma poi lavoro ossessivamente sui dettagli. Da solo e poi con l’editor, che fa un lavoro importantissimo. Sono capace di non dormire per una virgola, perché so che può cambiare tutto. Mettere la parola fine a un romanzo è la cosa più difficile.
Chi legge i tuoi libri appena terminati?
Mia moglie prima di tutti.
E segui le sue indicazioni?
Non per forza… Però io sono un autore che i consigli li ascolta, non dico mai che quello che ho scritto è “il verbo” e non si può cambiare.
Qual è il complimento sulla tua scrittura che hai apprezzato di più in questi anni?
Non ci avevo mai pensato prima… Credo che sia quando mi hanno detto che sono uno scrittore autentico e soprattutto generoso. Mi fa piacere che lo abbiano apprezzato perché io, quando scrivo un romanzo, tutte le storie che mi vengono in mente le metto lì. Ne La felicità dell’attesa intreccio tantissime vicende, una avrei potuto tenermela per un altro romanzo, un racconto breve, per esempio. Ma non ne sono capace.
C’è stata invece qualche critica che ti ha infastidito?
Dopo aver vinto il Campiello ho scritto un libro breve, Il bacio del pane (Mondadori, ndr) e ho ricevuto una critica su Tuttolibri che ho trovato assolutamente ingiustificata perché sembrava scritta solo per colpire lo scrittore di successo del momento. Intanto, per tutta la recensione, il critico ha storpiato il mio nome, quindi ha scritto che la storia, che parlava di ‘ndrangheta, non era riuscita perché il personaggio che combatte contro la criminalità organizzata alla fine non viene ammazzato. Ho trovato che la critica non riguardasse il libro, ma la mia visione di scrittura, che era improntata a dare una speranza. Trovo che alcuni critici vogliano leggere solo quello che sanno già. Il mio libro, avendo un lieto fine, è stato considerato brutto. Non capiscono che, invece, un finale di questo tipo è originale perché nella realtà non accade mai.
Quando hai capito che saresti diventato uno scrittore?
Veramente ancora non l’ho capito… Scherzi a parte, ti confesso che sono ancora insicuro come per il primo libro e spero che questa insicurezza mi resti sempre. Sono sincero. Ogni volta che finisco un romanzo mi domando: “Sono davvero riuscito a finirlo?”. Sarà perché sono arbëreshë e l’italiano l’ho imparato tardi, infatti linguisticamente io non ho sessantun anni anni, ma solo cinquantaquattro, ma spero che questa insicurezza di fondo mi resti perché è la carta vincente. Bisogna sempre ripartire da zero. Anche adesso, ogni volta che esce un nuovo libro, ne vedo la copertina, leggo le recensioni e vado alle presentazioni, vivo le stesse emozioni di un esordiente. Anche questa intervista con te…
Ti piace fare le presentazioni?
È la cosa che mi piace di più perché quello è il momento in cui tutto il lavoro che hai fatto, le nottate e i fastidi della scrittura, perché scrivere non è solo piacere ma anche fatica, ti gratifica davvero. Meno male che ci sono questi momenti, perché se no, insicuro come sono, io non scriverei più nulla.
Diamo un consiglio a chi sogna di diventare scrittore?
Intanto bisogna scrivere per necessità, per urgenza, non pensando al successo. E poi non fare mai l’errore di pubblicare un libro a pagamento e tantomeno di pensare che gli editori non leggano nulla. Ai giovani dico, se credete nel vostro libro mandatelo agli editori, abbiate pazienza e se vi rispondono in modo negativo non scoraggiatevi, se davvero credete nella vostra storia prima o poi questa incontrerà l’editore giusto per lei. A me è successo.