Intervista al regista Alessandro Lunardelli: Il mondo (del cinema) fino in fondo.
Il cinema italiano, nonostante anni di cinepanettoni fatti in serie, ha più volte dimostrato di avere le risorse per affrancarsi dalle risate facili delle commedie a base di bionde scosciate e battute volgari. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i registi che si sono cimentati con lungometraggi di qualità ottenendo spesso buoni risultati. Tra questi c’è l’esordiente Alessandro Lunardelli, che lo scorso anno ha diretto Il mondo fino in fondo, un film che ha ottenuto ottime recensioni di pubblico e critica.
Ho incontrato Lunardelli a Barcellona, dove si è rifugiato in cerca di tranquillità per scrivere la sceneggiatura di un nuovo film. Per una profana del mondo del cinema avere la possibilità di conversare con un regista specie se, come Lunardelli, con alle spalle una gavetta ottenuta con determinazione e sacrificio, è un’occasione unica di conoscenza. Ho approfittato di questo incontro per farmi raccontare non solo la sua storia di vita (non scrivo la sua età perché si rifiuta di rivelarla) e la nascita de Il mondo fino in fondo, ma anche i retroscena che caratterizzano la produzione cinematografica.
Ne è risultata una conversazione per me molto interessante, che spero possa arricchire e soddisfare anche i lettori.
Alessandro, tu non sei figlio d’arte e non hai frequentato il Centro sperimentale di cinematografia. Mi racconti come sei arrivato alla regia?
Ho iniziato tardi a sognare di fare cinema. Sono laureato in economia e cominciato fin da subito a lavorare in grande aziende come la Sony. Non ho in casa una grande tradizione cinematografica. Forse all’inizio non mi illudevo abbastanza di potercela fare e poi avevo bisogno di guadagnare, così usavo le ferie o prendevo dei periodi di aspettativa per fare il volontario sui set. Per qualche anno ho sdoppiato la mia vita e quando ho avuto da parte abbastanza soldi per rischiare il tutto per tutto mi sono licenziato e sono arrivato a Roma per ricominciare da zero nel cinema. Ho passato tutti i lavori che girano intorno alla regia fino ad arrivare alla scrittura. La casa di produzione con cui collaboro da sempre ha letto la sceneggiatura e da lì poi è nato tutto.
Come ti è venuta l’idea de Il mondo fino in fondo?
Volevo una storia di fratelli in una situazione ambientale e culturale piena di limiti. L’idea era che Davide, il protagonista giovane, dovesse incontrare e innamorarsi di un coetaneo che sulla carta dovesse essere non ricco e non europeo, ma che nella realtà dovesse appartenere a una comunità sociale molto più evoluta. I giovani cileni e i loro movimenti studenteschi sono una realtà completamente distonica rispetto ad Agro, il piccolo paese di provincia da cui proviene Davide. Io cercavo questo contrasto.
Perché hai scelto il Cile come paese in cui far viaggiare i tuoi personaggi?
Non avevo un motivo reale per scegliere il Cile, ma la mia storia prevedeva un viaggio in un luogo lontano ed esotico, dove i personaggi dovevano perdere tutti i riferimenti culturali. Sono andato prima in Argentina ma non mi ha convinto. Poi ho conosciuto Maura Morales, una ragazza italo-cilena, che è diventata la direttrice della fotografia (bravissima, ndr), la quale mi ha presentato la casa di produzione cilena con cui ho collaborato e a quel punto le cose si sono velocizzate. I cileni oggi sono gli svizzeri del Sud America perché sono i più affidabili e i più avanzati industrialmente.
Mi spieghi come si arriva dalla sceneggiatura al film?
Dopo la fase di scrittura si fa il giro “delle chiese” a chiedere i soldi. La prima tappa è il ministero, che a noi ha dato il massimo che viene erogato, cioè 300 mila euro, la seconda tappa sono le Regioni, poi Rai Cinema. Noi avevamo anche una co-produzione con una società Cilena, che poi si è tirata indietro, e a quel punto ho creduto di dover rinunciare al film. Invece la produzione italiana mi ha sostenuto e sono riusciti a trovare le risorse.
Qual è il messaggio che hai voluto trasmettere con Il mondo fino in fondo?
Il mio è un film sull’incomunicabilità e forse ancora di più sulla fragilità. Mi interessava raccontare un rapporto di fratellanza forte, puro, ma anche un po’ ricattatorio e cercare di superare i limiti che le persone si pongono per convenienza e necessità ambientale e vedere come, perdendo i propri riferimenti culturali, quegli stessi limiti possono essere scavalcati in modo semplice, grazie ai sentimenti. Il film tratta anche altri temi come l’omosessualità e l’ecologismo, ma non si poggia su di loro, non mi interessava farli diventare centrali.
Vedendo il mondo fino in fondo non mi è sembrato che avesse un budget basso, come spesso accade ai film degli esordienti. Alla fine sei riuscito a mettere insieme risorse consistenti?
Il film sembra più ricco dei novecento mila euro che è costato. Lo abbiano girato in meno di sette settimane delle quali due in Patagonia e una a Santiago. Tutti abbiamo lavorato con compensi bassissimi. Persino Alfredo Castro, che in Cile è conosciutissimo, dopo aver letto il copione ha accettato di lavorare con noi per poche migliaia di euro.
I due attori protagonisti, Luca Marinelli e Filippo Scicchitano, nel film interpretano alla perfezione i due fratelli uniti da un rapporto di odio-amore. Con quali criteri li hai scelti?
Il ruolo di Loris, il fratello maggiore, benché sembri il coprotagonista, per me era il personaggio chiave. Io avevo visto Marinelli in altri film e mi era piaciuto molto, lo trovavo perfetto per quel ruolo e quando gliel’ho proposto ha accettato subito. Non c’è stato provino e devo riconoscere che benché abbia un carattere molto speciale, Marinelli è davvero bravissimo.
Per quanto riguarda il ruolo di Davide, inizialmente, cercavo un ragazzo senza esperienza. Ne ho visti almeno duecento ma senza risultato. La direttrice del casting allora mi ha proposto alcuni giovani attori tra cui Filippo Scicchitano, che al principio non mi convinceva soprattutto a causa del suo forte accento romano. Dopo il provino però ho cambiato idea. La sua spontaneità mi ha colpito molto e a quale punto ci siamo messi a lavorare sul linguaggio. Prima abbiamo tentato con il veneto, ma non ha funzionato, quindi siamo passati a un accento neutro.
Qual è stata la cosa più bella che ti hanno detto sul film?
Ce ne sono almeno due, arrivate in momenti diversi. La prima è stata la recensione di Maurizio Porro sul Corriere della sera che parlava del film in modo lusinghiero. La seconda quando siamo andati al festival di Nanni Moretti, che riunisce ogni anno le opere prime come la mia. Dopo il dibattito Moretti mi ha detto delle parole molto belle. Era rimasto colpito e mi ha incentivato ad andare avanti.
E c’è stato qualche critica che ti ha infastidito o che hai ritenuto poco giustificata?
L’unica che ho digerito a fatica è stata quella di chi ha sostenuto che il film tocca troppi temi e non ne approfondisce nessuno. Non la capisco perché io rifiuto la schiavitù del tema, del fatto che se non c’è un argomento specifico non si possa inquadrare il film in un genere determinato. E poi mi hanno colpito le parole di mio papà, che mi ha detto che ha capito e apprezzato il film solo dopo la seconda visione. Lui è un uomo dal carattere piuttosto duro, non fa complimenti e attribuisce a questa sua durezza un valore pedagogico.
C’è qualcosa di autobiografico nel film?
Sì, ma non nel carattere dei personaggi. C’è la voglia di superare le difficoltà ambientali come è capitato a me che sono nato a Taranto e mi sono trasferito a Genova quando ero un ragazzino.
Cosa sogni come regista?
Non lo so ancora.
Vincere un Oscar?
Be, sì, perché no?
Qual è la cosa più difficile del tuo lavoro?
Io ho fatto solo un film, prima di chiamarmi davvero regista devo superare almeno la prova del secondo. Per ora “regista” è solo un’etichetta. Comunque credo che trovare qualcuno disposto ad ascoltarti sia uno degli aspetti più angoscianti di questo mestiere. La fase progettuale mi ha fatto sentire in difficoltà. E poi la sensazione che un film è qualcosa che può fallire, quindi la scommessa è portarlo fino alla fine perché mentre lo fai senti che potrebbe crollare tutto da un momento all’altro. Poi, invece, le cose magicamente vanno tutte al loro posto.
Ora stai scrivendo la sceneggiatura del nuovo film. Possiamo avere qualche anticipazione sulla nuova storia?
Sì, anche se sono ancora in una fase iniziale. Di certo sarà una storia molta diversa da Il mondo fino in fondo. Sarà un film sulla corruzione all’interno di una coppia, probabilmente verrà girato a Bari e ci saranno più vicende che comporranno un quadro, che ruota intorno a un matrimonio d’amore che, piano piano, si snatura.
Hai già in mente qualche attore per il tuo nuovo film?
Sì, mi piacerebbe molto lavorare con Berenice Bejo, l’attrice di The Artist. Ma è ancora presto per parlarne.