Paralimpiadi: omaggio agli atleti

Paralimpiadi: omaggio agli atleti

Alessandro Zanardi, Annalisa Minetti, Oscar de Pellegrin, Ivano e Luca Pizzi, Assunta Legnante, Elisabetta Mijno, Federico Morlacchi.

Sono i nomi di alcuni degli atleti della nazionale italiana che partecipa alle paralimpiadi di Londra in corso in questi giorni. Nomi di vincitori di medaglie nelle specialità più disparate. Nomi di vincitori tout court.

Persone che hanno affrontato e affrontano la vita con una marcia in più nonostante abbiano qualcosa in meno: la vista, le gambe, le braccia. Invalidità gravi che qualcuno considera sia meglio non esibire, relegando chi ne soffre a semplice spettatore della vita degli altri. È di pochi giorni fa l’uscita infelice di Paolo Villaggio che parlando delle paralimpiadi ha detto: “Io non le guardo, fa tristezza vedere gente che si trascina sulla sedia con arti artificiali. Mi sembra un po’ fastidioso, non è divertente, non fa ridere una partita di pallacanestro di gente seduta in sedia a rotelle”.

Commentare la stupidità umana è una perdita di tempo, tempo che invece meritano queste persone che hanno scelto di non arrendersi davanti ad ostacoli che ai “sani” mettono i brividi solo a pensarci. Poche, pochissime persone guardano in Tv le paralimpiadi, è vero. Gli sponsor non pagano milioni come per gli atleti delle Olimpiadi, la stampa non copre le notizie come fa per gli eventi sportivi internazionali di rilievo. Eppure, loro, gli atleti, sono là su quelle piste, in quelle piscine e su quei campi da gioco a sudare esattamente come sudano i campioni che hanno braccia, gambe, vista e udito perfettamente funzionanti. Esultano e piangono come tutti noi. Ma le loro grida di gioia o di delusione sono più potenti perché vengono dalla sofferenza.

Gli sportivi amatoriali che nella vita hanno affrontato almeno una corsa, una gara ciclistica o di nuoto, sanno quali sono i sacrifici che si richiedono a un atleta anche non professionista: allenamento fisico, disciplina alimentare, preparazione mentale. Reggere a queste pressioni con un handicap merita di per sé una medaglia.

Tutti gli atleti delle paralimpiadi, quelli salgono sul podio e quelli che non si qualificano mai, tutti indistintamente, hanno già vinto ai miei occhi e spero anche agli occhi di un pubblico molto più vasto, che guarda queste persone con stima e ammirazione. E non si scandalizza davanti a un arto artificiale o a una carrozzina.

Ogni giorno veniamo imbottiti di notizie nefaste, di previsioni catastrofiche che devastano le speranze dei giovani e smontano le certezze di chi giovane non lo è più; ogni giorno ci raccontano che se hai avuto successo sei un ladro o hai qualche amico al posto giusto, se la tua impresa funziona è perché sfrutti il lavoro altrui, se il tuo libro vende è perché scrivi porcherie per ignoranti. È possibile che nel nostro paese (ma in Spagna dove risiedo la solfa non è diversa) non si possa apprezzare il merito, il sacrificio, la volontà di superarsi?

Gli atleti delle paralimpiadi sono un esempio lampante del fatto che tutto è possibile, come ha detto Annalisa Minetti dopo aver conquistato il bronzo nei 1500 metri di corsa per atleti ciechi o con deficit visivo. Vi immaginate, voi che potete alzare lo sguardo al cielo ed emozionarvi per un tramonto, cosa significa correre al buio con una guida che vi dice dove andare? Io no.

È per questo che i commenti di chi non osa mai e incita gli altri alla rinuncia mi fanno venire l’orticaria.

Vincere non è arrivare primi. È prendere una strada e affrontarla col sorriso anche quando va in salita. E spesso per i paratleti la discesa non arriva mai. Aiutiamoli a sorridere.

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