Marta Pastorino: la semplicità che non ti aspetti

Marta Pastorino: la semplicità che non ti aspetti

Marta Pastorino verticale

Ha la voce da bambina, di una dolcezza che non ti aspetti da una che ha scritto, con un linguaggio a dir poco ruvido, un romanzo sul rifiuto della maternità. Eppure, Marta Pastorino, autrice de Il primo gesto, edito da Mondadori, è una donna di una genuinità disarmante.

Trentacinque anni, genovese di nascita e torinese di adozione, all’intervista si presenta con il viso acqua e sapone, così come compare in tutte le immagini pubbliche. L’unico trucco, con cui cerca di mascherare come può quel po’ di timidezza che non occorre essere maghi per indovinare, è il sorriso che le fa brillare gli occhi.

In Marta Pastorino non c’è traccia di vanità e nemmeno l’aver esordito con un grande editore come Mondadori (in precedenza aveva pubblicato racconti in alcune antologie e nel 2006 il racconto lungo Effetti collaterali per Meridiano Zero) sembra aver intaccato la sua naturale tendenza alla sobrietà. Forse perché, come mi spiega lei stessa, ha alle spalle anni di rifiuti nei confronti di un primo romanzo, che poi ha accantonato per scrivere Il primo gesto. E i rifiuti, si sa, in genere fanno tenere i piedi ben piantati per terra.

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La nostra chiacchierata parte dai temi del suo libro, ma in ogni risposta si intrecciano fili che portano lontano, ed è un continuo ricomporre i pensieri.

Comincio l’intervista cercando di capire come una madre di un bimbo ancora piccolo possa scrivere un libro che prende il via dall’abbandono di un neonato in ospedale dopo il parto.

Marta, da dove è nata questa storia dura, che intreccia la morte di una donna anziana con quelle della sua giovane badante che dopo il parto lascia il figlio in ospedale?

La prima cosa che ho fatto è stato scrivere un racconto un anno dopo la morte di mia nonna. Da lì è nato il personaggio di Maria (l’anziana donna che muore all’inizio del romanzo, nda). Aver visto mia nonna morire assistita da mia madre e dalla badante è stata un’esperienza che mi ha fatto molto riflettere. Credo di essere stata l’unica in famiglia a desiderare che lei morisse. Aveva quasi novant’anni, è stata in fin di vita per otto mesi, ma il suo corpo non cedeva. Fino alla fine è stata lucida ed era arrabbiata con tutte le cose della vita che non aveva risolto. Un giorno mi domandò: “Marta, quando succederà?”. Non so esattamente quali furono le mie parole, ma so che in quella conversazione fu come se le avessi detto “Vai…”.  L’avevo lasciata “libera”, non c’erano più cose irrisolte.

Poi è nata Anna, la badante…

Sì, avevo questo racconto sulla nonna, ma era lì fermo, non partiva nient’altro, così ho cercato un’altra voce. L’altro tema che volevo affrontare era la negazione della maternità e così è nata Anna, una giovane donna italiana che si occupa di Maria, la lava, le dà da mangiare, la cura in tutto e per tutto. Qualcuno mi ha fatto notare che in genere queste ragazze sono straniere, ma non è sempre così. Io volevo partire dalla cura del corpo, un tema che mi interessa da sempre.

Infatti il corpo è protagonista indiscusso nel tuo romanzo. Perché?

Perché per me tutto il processo della scrittura passa da lì. Passa dal fatto che tutto si sperimenta attraverso il corpo. La conoscenza arriva attraverso la sensazione. Le emozioni sono il passaggio successivo e la scrittura è la conseguenza ultima. Anche i miei personaggi partono dalla fisicità come se fosse il primo modo di conoscenza, una cosa rara in un mondo dove ormai è tutto così virtuale e intangibile. Io sono davvero avulsa da tutto ciò, il mio percorso passa attraverso la danza e il teatro, quindi attraverso il corpo. Non è stata una scelta consapevole, ma naturale.

Un altro tema importante è quello della famiglia che per la nostra cultura è considerata un rifugio, ma per Anna è, al contrario, un posto da cui fuggire.

In realtà il mio percorso verso la famiglia di Anna è stato a ritroso. Sono partita dal punto di non ritorno che è dell’abbandono del bambino e mi sono chiesta: “E ora che cosa può succedere?”. Ci sono delle cose che accadono nella vita che sembra ti portino a una fine e invece poi la vita continua e ti chiedi “come faccio a resistere a questo? “Semplicemente, vivi. Il tempo aiuta. Così, nel cercare di capire che cosa poteva accadere nella vita di questa giovane donna dopo il suo gesto, sono arrivata a scoprire la sua famiglia e il perché si sia allontanata.

Questo significa che i tuoi personaggi non avevano già una vita scritta nella tua testa prima di cominciare a scrivere il romanzo?

No, infatti. Probabilmente c’è stata una lunga incubazione dentro, ma non avevo una struttura già pensata, le cose sono arrivate poco a poco. Ho preso ispirazione da ciò che dice Javier Marías nel saggio Vagare con la bussola incluso nel romanzo Un cuore così bianco (Einaudi), in cui spiega che quando scrive usa “la regola della vita”, cioè far capitare le cose ai suoi personaggi attenendosi a quello che ha appena scritto, senza premeditazione.

Ti è capitato di arenarti in qualche fase?

No, in realtà c’è stata una stesura di getto di cinque, sei mesi e poi una rilettura e una sistemazione di tutto quello che avevo scritto.

Il titolo il primo gesto è tuo?

Sì, a un certo punto è arrivato da solo.

Il tuo linguaggio è essenziale, senza sbavature. L’hai cercato per questa storia o scrivi sempre così?

Non l’ho cercato. prima ero ancora più asciutta. In questo romanzo il lavoro è stato quello di “tirar fuori”.

Qual è la cosa più bella che ti hanno detto sul tuo libro?

(Ci pensa a lungo, quasi avesse pudore di rivelare i complimenti ricevuti, poi finalmente se ne ricorda uno importante)

Che è un libro coraggioso.

Tu hai frequentato la scuola Holden e oggi insegni nei suoi laboratori di scrittura creativa. Quanto ti è stata utile questa esperienza?

Io l’ho frequentata dieci anni fa e credo che la cosa più importante sia stata il fatto che mi abbia permesso di pensare che la mia fantasia di trasformare la scrittura in un mestiere potesse diventare realtà. Alla Holden vedi persone che ci sono riuscite e sono esseri umani in carne e ossa. Lì senti che, se lo vuoi veramente, è una strada che si può percorrere. È un’esperienza arricchente.

Quel è il libro che vorresti aver scritto tu?

(Di nuovo una lunghissima pausa di riflessione)

Tra quelli che ho letto di recente non saprei dire, però la prima cosa che mi viene in mente è la Trilogia della città di K. di Agota Kristof, (autrice ungherese pubblicata in Italia da Einaudi, nda) in particolare in primo, Il grande quaderno. Più che il tema è la voce della scrittrice che mi piace. Dopo la Holden questo libro me lo sono letto e studiato tante volte.

Abbiamo parlato di lodi, parliamo di critiche. C’è qualche commento che ti ha dato fastidio?

Una recensione in cui si dice che il mio viso in quarta di copertina suggella la bella operazione di marketing della casa editrice. Una considerazione che mi ha ferito. Non credo che uno scrittore uomo venga giudicato in base al suo aspetto.

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Quando non scrivi cosa fai?

A parte fare la mamma, per un po’ di tempo mi sono dedicata a scrivere per il  teatro. Avevo fondato una compagnia con alcune ragazze torinesi. La bellezza del teatro è lo stare insieme, creare qualcosa nell’improvvisazione, è ricerca. Poi cerco di mantenermi con la scrittura, insegno nei laboratori…

Il tuo ruolo di scrittrice comporta anche obblighi di presentazione del romanzo. Che effetto ti fa parlare in pubblico?

All’inizio mi sono sentita in difficoltà poi però, visto che le librerie sono delle giungle, ho capito che è importante che lo scrittore accompagni con la presenza fisica il suo romanzo. Oggi il problema più grande è arrivare al lettore, forse è addirittura più difficile che riuscire a pubblicare. Nelle presentazioni, grazie alle domande e alle interpretazioni da parte del pubblico, sono arrivata a capire molte cose del mio libro.

Hai già in mente qualche altra storia o per ora ti dedichi solo alla promozione del libro?

Quando ho scritto Il primo gesto mi sono trovata in una serie di situazioni fortunate che mi hanno permesso di dedicarmi soltanto alla scrittura. Non so se riuscirò di nuovo ritrovare il tempo necessario, ma ho delle idee che mi passano per la testa e non vedo l’ora di rimettermi a scrivere.

Più bello rispetto al vedere il romanzo in libreria?

Non dico che vederlo pubblicato non mi abbia gratificato, forse però mi ha dato ancora più soddisfazione scriverlo. Saperlo in libreria mi appaga, certo, anche se il giorno in cui è uscito non mi sono mossa da casa per andare a vederlo, mi faceva un po’ effetto. In realtà io mi sento davvero felice quando scrivo.

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